Consiglio di andarci di mattino presto.
Meglio all’apertura.
Quando siete i soli umani a varcare il cancello che vi separa da una passeggiata nel II secolo D.C.
Superato il prefabbricato, dove una gentile signora dà informazioni generali sul sito e sotto lo sguardo annoiato di alcuni gatti sdraiati mollemente ovunque nei dintorni, eccovi al III miglio della via Latina, strada utilizzata dagli Etruschi per colonizzare la Campania nel VIII-VI secolo a.C, definitivamente tracciata dai Romani nel IV-III secolo a.C. e arteria fondamentale nel medioevo per raggiungere Napoli.
Nei tempi di cui mi accingo a parlare congiungeva Roma a Capua attraversando i monti Lepini, Ausoni, Aurunci e le valli dei fiumi Sacco e Liri.
Dunque, eccomi al cancello, in via dell’arco di Travertino 151, pochi minuti dopo l’apertura, ancora una volto pronto a lasciarmi alle spalle il XXI secolo e a fare un balzo indietro nel tempo di quasi duemila anni.
È una domenica caldissima di metà luglio nonostante siano solo le 9 di mattina, già si boccheggia.
Davanti a me il sentiero che in alcuni tratti conserva il basolato originale, ai lati, le ricche tombe risalenti al I-II secolo d.C. che si affacciavano sul percorso e che presentano ancora perfettamente conservate le decorazioni policrome sulle facciate e all’interno dove si possono ammirare affreschi con scene funerarie, pavimenti in mosaico e volte rivestite d’intonaco dipinto e a stucco, ancora in perfetto stato di conservazione.
E poi i pini.
Fiancheggiano la via come fieri guardiani del tempo.
Le maestose chiome sono rifugio per uccelli di ogni tipo il cui canto si sostituisce totalmente ai rumori della vita moderna ed è una delizia per le orecchie, ma soprattutto per lo spirito.
Mi incammino lentamente.
Il sentiero è lievemente in salita, il rumore dei miei passi si amalgama perfettamente con il gorgheggio degli usignoli, il gracchiare delle cornacchie, il tubare di tortore e colombi, lo stridio dei gabbiani che compiono ampi cerchi lassù, oltre il groviglio di rami che stendono pietose ombre sul terreno assetato d’acqua.
Ed ecco venire incontro, uno dopo l’altro , il Sepolcro dei Corneli o Barberini, due piani sopra terra e un ipogeo, famoso per i suoi affreschi a sfondo rosso, quello dei Valerii con l’elaborata decorazione dell’ambiente sepolcrale costituita da trentacinque medaglioni, con soggetti dionisiaci, figure femminili e animali marini e, di fronte, il sepolcro dei Pancrazi che conserva nella camera ipoea un gran sarcofago in marmo greco.
Tra questi che sono certamente i più importanti e soprattutto quelli meglio conservati, altri ruderi, torrioni, frammenti, testimonianze ovunque di un luogo dove si faceva a gara nell’attirare l’attenzione del viandante con vere e proprie opere d’arte che, anche se solo in parte, sono giunte fino a noi.
Improvvisamente il sentiero sterrato torna ad essere la strada di una volta: un regolare susseguirsi di grosse pietre levigate, alcune ancora segnate dai solchi delle ruote degli antichi carri e ancora perfettamente allineate una accanto all’altra, una dopo l’altra.
Come ho sempre fatto, in casi simili, mi chino e allungo una mano verso quelle pietre sulle quali è passata la storia e sulle quali, ora, sto passando io viandante stupito e grato del XXI secolo.
È un saluto breve e intenso, il mio.
Poi mi rialzo e proseguo la mia visita.
Ma sono già alla fine del percorso.
Al di là di un recinto è la strada moderna.
Torno indietro e varco di nuovo il cancello d’ingresso seguito dallo sguardo annoiato dei gatti.
Mentre le chiome dei maestosi guardiani del tempo, i pini, salutano l’arrivo di un nuovo viandante con un libro in mano, raggiungo l’auto nel parcheggio.
Immagino troverà una panchina all’ombra dove sedersi e godere dell’incontro tra archeologia e natura.
Qui, dove suoni e colori fanno sempre festa.
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