La vite, il vignaiolo e i tralci
Il Padre, Gesù e i discepoli
L’immagine-simbolo della vite (Gv. 15, 1-8), brano che si trova nella parte centrale del “discorso di addio”, si articola in due parti, introdotte entrambe dalla medesima affermazione di Gesù che rivela la propria identità: “Io sono la vera vite” (v. 1). Con l’immagine della vite, egli manifesta la propria relazione con il Padre, chiamato “il vignaiolo”, e quella che lo unisce ai discepoli, designati come “i tralci” (v. 5). Il brano che ascolteremo la domenica V di Pasqua sviluppa, attraverso l’immagine della vite, il tema del tralcio che porta frutto se rimane attaccato alla vite; l’azione purificatrice del vignaiolo pieno di sollecitudine per la sua vite e l’unione dei tralci alla vite mediante il termine “rimanere” (v. 4ss.); il Padre che purifica i discepoli con la parola di Gesù (v. 3) e l’immanenza di Gesù nei discepoli che implica la reciprocità in una esigenza di unione sempre più profonda.
La Vite e l’Alleanza
Nell’immagine della vite e nella sua spiegazione, l’evangelista Giovanni ci fa comprendere che l’alleanza di Dio con gli uomini è ormai pienamente realizzata dall’atto di Gesù, che muore per i suoi nella pienezza dell’amore e così comunica loro lo stesso amore che lo unisce al Padre e che fonda la comunità dei discepoli. Il ritorno di Gesù al Padre significa ora che l’alleanza di Dio con gli uomini è veramente compiuta ed effettivamente offerta a tutti coloro che rimangono uniti a Gesù come i tralci alla vite. “Io sono la vera vite”: questa espressione sta ad indicare il titolo rivendicato da Gesù, sia come realizzatore che come mediatore dell’avvenuta alleanza. In Gesù, l’immagine diventa realtà: d’ora innanzi, l’amore del Padre verso il Figlio potrà liberamente manifestarsi nell’umanità tutta che diventa comunità di fratelli che si amano come Gesù ci ha amato, fino al dono supremo di sé.
Gesù afferma di essere la “vera vite”: non la vite (la vigna) che nell’ Antico Testamento si identifica con Israele, e che per la sua infedeltà all’alleanza va incontro alla distruzione e al giudizio di Dio, che l’aveva scelta e curata con amore tenero, materno; ma la vera vite che è Gesù Cristo, il vero Israele, obbediente al Padre fino alla morte e alla morte di croce: al quale il credente potrà appartenere solo unendosi indissolubilmente a lui. Con la propria assimilazione all’atto di Cristo che muore per i suoi, egli sperimenterà l’interiorità dell’alleanza attraverso l’intervento premuroso ed esigente del Dio vignaiolo. Se Gesù è la vite perfetta, la vita dei tralci che ad essa sono uniti si presenta come il compimento della storia dell’alleanza, dove l’infedeltà degli uomini è incessantemente rifusa nella fedeltà del Figlio.
La pienezza dell’alleanza si esprime nella vicendevole immanenza di Gesù e dei discepoli: il termine “rimanere” esprime bene questa immagine reciproca, di cui la persona di Gesù è il luogo. Gesù, la vera vite, è nello stesso tempo l’oggetto dell’amore premuroso del Padre e il cuore dal quale la linfa vitale si diffonde nei tralci. “Rimanete in me”: l’espressione caratterizza l’innesto dei tralci sulla vite, oppure, all’opposto, il rigetto del tralcio staccato dal tronco. Il ramo porta frutto perché unito alla vite.
Il rapporto tra il vignaiolo e la vite manifesta l’unione del Padre e del Figlio nell’amore e nell’obbedienza; il rapporto tra la vite e i tralci si esprimerà nell’immanenza dell’amore e nell’osservanza dei comandamenti. Il Cristo si rivela dunque come il mediatore essenziale tra il Padre e i discepoli, poiché l’amore che lo unisce al Padre fonda l’unione dei discepoli tra loro. L’amore stesso che lo unisce al Padre diventa il comandamento nuovo di Gesù e che diventa il principio di unione tra gli uomini. L’amore del prossimo diventa quindi comunicazione dell’amore divino realizzato da Gesù nella sua pienezza suprema. Il suo sangue sancisce l’alleanza definitiva, ed è vicino il tempo in cui egli berrà con i discepoli il vino nuovo nel regno del Padre.
E’ giunto il momento di una nuova “liturgia”, nella quale l’alleanza viene celebrata in una comunità che vive grazie a colui che è presente in essa e le permette di portare frutto. Questa comunità custodisce la Parola annunciata da Gesù (v. 3), rivelazione dell’amore del Padre, con la fedele osservanza delle parole del Maestro (v. 7), condensate nel comandamento dell’amore. Per la chiesa è giunta l’ora di adorare il Padre in “Spirito e verità” (Gv. 4, 24), cioè di riconoscere la dimensione trinitaria della sua esistenza. L’alleanza sancita da Gesù introduce i discepoli nell’intimità del Padre, e permette loro di celebrare una liturgia in cui la loro preghiera, identificata con quella del Figlio, è già esaudita in precedenza. I discepoli uniti a Cristo diventano la manifestazione concreta del suo amore verso il Padre e verso gli uomini, e suoi testimoni davanti al mondo con i frutti che producono e la gioia che irradiano. Certo, il tralcio infecondo può essere tagliato e gettato nel fuoco, poiché la salvezza non può essere imposta ad alcuno contro la sua volontà. Ma chi ha compreso che in Gesù si trova il compimento dell’amore, non può non rimanere unito a lui: l’osservanza del comandamento nuovo è una pienezza ricevuta dalla vite. Chi rimane in Cristo si sottomette liberamente alla feconda esigenza del Padre: “ogni tralcio che porta frutto (il Padre) lo pota, perché porti più frutto” (v. 2).
La vite e l’Eucaristia
Con l’immagine della vite, nel centro del discorso di addio ai suoi, Gesù invita i discepoli a farsi eucaristia con lui. L’affermazione “Io sono la vera vite” ci rimanda, senza alcun dubbio, a quella della moltiplicazione dei pani “Io sono il pane della vita”. L’immagine della vite diventa un simbolo eucaristico. Per coglierne la portata è necessario afferrare la duplice dimensione del Corpo di Cristo: quello che egli ci dà da mangiare e quello che egli costituisce con noi. S. Agostino diceva ai suoi fedeli che si accostavano all’Eucaristia: “diventate ciò che ricevete: il Corpo di Cristo. La chiesa, Corpo di Cristo, non può nutrirsi che del Corpo di Cristo morto e risorto. In questo senso l’ha inteso la tradizione cristiana: il più antico documento liturgico (Didachè) della chiesa concernente l’Eucaristia così si esprime: “Noi ti benediciamo, Padre, per la santa vite, Gesù Cristo, tuo servo”.
Bibliografia consultata: Radermakers, 1973.