Musica

Il rock è roba da grandi. L’album di esordio di Patti Smith: “Horses”, 1975

L’apparizione fulminante di Patti Smith: “Horses”. Un capolavoro inatteso che restituisce il rock alla sua vera natura: l’antidoto al pop.

Il primo tentativo, e subito lo zenit. L’album di esordio di Patti Smith uscì negli USA il 10 novembre del 1975 (e il segno dello Scorpione gli sta a pennello) e fu una sorpresa straordinaria.

L’unico indizio di una possibile grandezza era la produzione di John Cale, ex Velvet Underground. Ma perché perdere tempo con le indagini preliminari, quando hai in mano la prova regina?

L’attacco era già un colpo di genio. Prendi un’ordinaria bella canzone, sia pure di un artista per nulla ordinario come Van Morrison, e la reinventi da cima a fondo.

Lo stesso metallo di partenza. Tutta un’altra fornace. Lo stesso titolo, “Gloria”. Tutta un’altra intenzione. Il nome della ragazza è lo stesso. Il resto è tutto diverso.

L’amante al maschile diventa l’amante al femminile. Gloria è un nome di persona. Gloria (in excelsis deo) è un inno metafisico. Lei, Patti o il suo alter ego che canta, desidera la persona. Degli inni metafisici non sa cosa farsene. “Gesù è morto per i peccati di qualcuno, ma non per i miei”.

Patti Smith – Gloria (lyrics)

New York, c/o Chelsea Hotel

Patti Smith aveva quasi trent’anni. Una poetessa che ancora non sapeva di poter essere una fuoriclasse del rock. Una donna che aveva già vissuto tanto, come racconterà benissimo nella sua autobiografia “Just kids” pubblicata nel 2010, e che si era auto trapiantata a New York.

Installata per lungo tempo in quel bizzarro “quartiere verticale” che è stato il Chelsea Hotel. Incontri imprevedibili con persone interessanti, o addirittura geniali. A volte già famose o in attesa di diventarlo. Altre volte destinate a nessuna fama. Che non significa affatto di nessun valore.

Horses, cavalli. In altre mani, su altre labbra, una parola ordinaria, banale, forse persino ruffiana se utilizzata per denominare un prodotto. In quelle di Patti Smith, invece, un frammento che equivale a un seme. Il frammento di un brano omonimo, dilatato e ipnotico, che solo un perfetto idiota potrebbe definire “canzone”.

Un seme che nel terreno giusto diventerà giungla. Non piantagione. Men che meno attrazione da serra. Versi rigogliosi e intrecciati come liane. Musiche sinuose come serpenti in agguato o martellanti come predatori sulle tue tracce.  

Nulla da esibire. Moltissimo da esplorare. E che sia benedetto il rischio di perdersi, pur di non restare prigionieri di quello che si sa già. Che si crede di sapere. Che è sbagliato.

Federico Zamboni

Giornalista professionista e molto altro, tra stampa, radio e incontri pubblici. Terreno di caccia preferito: la società occidentale che fa finta di essere libera, democratica, benintenzionata. Nel 2019 ha pubblicato “Loro sono furbi… ma noi possiamo essere intelligenti” (Guida alle tecniche di manipolazione).

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