Religione

L’amore, il comandamento del discepolo: donare la vita per i propri “amici”

Rimanere nell’amore (Gv. 15, 9-17)

Con una frase simmetrica Gesù mette in parallelo l’amore del Padre nei suoi confronti e il suo amore verso i discepoli. La richiesta rivolta a questi ultimi è quella di rimanere nel suo amore. Il verbo “rimanere” si identifica con il verbo “amare”. Gesù offre il criterio per cui i discepoli rimangano nel suo amore: osservare i suoi comandamenti. Tuttavia essi non si identificano con quelli donati da Dio sul monte Sinai, ma sono sostanzialmente due: quello dell’amore verso Dio e quello dell’amore verso il prossimo.

Non si tratta pertanto delle cosiddette “dieci parole”, ma del progetto divino che Gesù realizza lungo il corso della sua missione. Vivere nell’amore è garanzia del rimanere in Dio e in Gesù. L’amore ha anche un’altra funzione nella vita del discepolo, quella di essere fonte della gioia. Quest’ultima non è ilarità o contentezza, ma è il risultato di una vita piena di senso, basata su relazioni autentiche e profonde. Questa forza della vita è comunicata quando si vive un rapporto con Gesù. Il comandamento dell’amore si realizza nel rapporto di dedizione tra i discepoli. Esso non è soltanto risultato di un’affezione umana, ma deriva dal Signore risorto, che rimane sempre con loro.

Gli amici di Gesù

L’amore di origine divina si realizza nella concretezza dell’esistenza, nel donare la vita per i propri “amici”: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (v. 13). Questa è una categoria nuova per interpretare il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli e quelli tra di loro. Gesù, che nel corso della sua vicenda umana è stato un maestro, nella risurrezione si rivelerà come Signore dei discepoli.

Questa diversa modalità è interpretata dalla relazione di amicizia, la quale non deriva tanto dal mondo biblico-giudaico, quanto da quello greco-ellenistico. L’amico è colui con cui si condividono valori, visioni di vita, sentimenti, progetti. Nei sinottici, a un certo punto, Gesù definisce i suoi discepoli come fratelli. Effettivamente sono due categorie relazionali molto diverse, perché la prima appartiene al mondo dei rapporti familiari, mentre la seconda all’ambito delle relazioni sociali. In ogni caso, entrambe alludono a una compenetrazione di vita tra le persone che si sentono fratelli o amici.

Gesù non si riferisce a una amicizia di tipo superficiale o a una semplice conoscenza, ma a quel tipo di relazione profonda e coinvolgente che arriva a offrire la propria vita per l’amico. E’ questo lo stile di Gesù nei confronti dei suoi discepoli. Il tema dell’amicizia offre l’occasione per illustrare un altro aspetto di questa relazione: l’amicizia porta ad ascoltare e a compiere ciò che l’altro desidera. Pertanto, ciò che Gesù chiede con il suo Vangelo diventa lo scopo anche dei discepoli. “Non vi chiamo più servi” (v. 15): adesso Gesù vuole che i suoi discepoli, condividendo una relazione amicale con lui, siano pienamente corresponsabili del suo annuncio e della sua missione. Se il servo infatti non è messo al corrente di tutto ciò che il padrone pensa e compie, diversamente l’amico condivide e si confida.

Gesù, insomma, coinvolge i discepoli nel progetto di salvezza, suscitando in loro un senso di compartecipazione per ciò che concerne l’azione di Dio nella storia. Essi, tramite la comunicazione del Vangelo, sono così messi a parte dell’intera volontà di Dio. Non sono più persone dipendenti o figure passive (“servi”), ma soggetti attivi, responsabili della parola di Dio. Per il Nuovo Testamento non è quindi pensabile che ci siano credenti che non conoscono o ignorano la volontà di Dio.

La relazione è il frutto

Gesù rivendica l’iniziativa dell’elezione nei confronti dei suoi discepoli. Essi hanno ricevuto una chiamata a cui devono rispondere portando frutto. Come si è visto nel Vangelo di domenica scorsa, il portare frutto non consiste semplicemente in azioni di carità o in gesti di solidarietà, ma nel vivere un’esistenza piena che comunichi la vita stessa di Dio. Gesù invita i suoi discepoli ad accogliere la vita divina dentro di loro, che lascia il proprio segno in tutte le relazioni, trasformandole.

Anche in questo contesto ricompare il tema della preghiera pronunciata nel nome di Gesù. Non si tratta di una orazione qualsiasi con cui si chiede a Dio di realizzare desideri, aspirazioni e sogni, ma di quella con un carattere messianico. La preghiera del discepolo deve essere in completa sintonia con quelle che sono le esigenze del Vangelo, sulla base dell’esempio della vite e dei tralci: ciò che può esserne il contenuto è il rafforzamento della relazione con il Signore risorto, la comunione tra i discepoli, la capacità di comunicazione di quella vita piena che solo Dio può donare.

L’ultima esortazione consiste nel ribadire la relazione di amore che deve contraddistinguere il rapporto tra i discepoli. Questo atteggiamento è fondamentale e irriducibile per poter essere chiesa nel tempo dopo la risurrezione di Cristo. Qualsiasi forma di relazione negativa che ingeneri nella comunità può ledere profondamente la sua testimonianza nel corso della storia. Essa non può essere il luogo della rivalità, delle invidie, dei protagonismi, degli egocentrismi, come qualsiasi altra ”società” umana, dove spesso prevale lo spirito di prevaricazione e di rivalsa. La chiesa è la comunità santa voluta da Dio perché la logica dell’amore si manifesti sempre di più nel mondo.

Solo l’amore è nuovo, sorprendentemente imprevedibile, totalmente inatteso. Solo l’amore è in grado di cambiare la faccia della terra perché imbocca sentieri inediti, poco battuti e dall’apparenza impraticabili, talvolta ardui e addirittura paradossali. Il Signore ci invita ad amare come lui, in modo smisurato e impensabile, pronti a offrire sempre, nonostante tutto, misericordia e compassione.                                  

 Il Capocordata.

Bibliografia consultata: Grasso, 2021; Laurita, 2021.

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