Nel discorso di commiato del vangelo di Marco (16, 15-20), Gesù invia i discepoli in tutto il mondo. L’invio alle genti è in linea con le affermazioni di Gesù disseminate lungo il racconto evangelico precedente, con le quali Gesù faceva intravedere la missione ecumenica. Il compito di annunciare “la lieta notizia” (Vangelo) è registrato più volte nel vangelo, come nel primo sommario, in cui è presentata l’attività specifica di Gesù: quella di proclamare il vangelo di Dio (1, 14-15), che trova la pienezza del suo significato con la sua morte e risurrezione.
Il verbo “annunciare” adesso specifica anche l’attività della comunità credente, impegnata nella missione dopo la Pasqua. Pertanto il programma di Gesù non si estingue con lui, ma sarà portato avanti da coloro che lo hanno affiancato. I destinatari dell’attività “di annuncio” non sono più soltanto i membri del popolo di Israele, e nemmeno tutti gli esseri umani, ma tutte le creature: “proclamate il Vangelo a ogni creatura” (v. 15). Con il termine “ktisis”, che significa sia creazione, sia creatura, si vuole sottolineare lo spessore cosmico dell’annuncio evangelico.
Il Risorto prospetta una duplice reazione di fronte alla proclamazione del Vangelo: accoglienza o rifiuto. L’adesione consiste nel credere e si estrinseca nell’essere battezzato nello Spirito Santo, il dono del Risorto. L’accoglienza della fede storicizzata con il battesimo è la condizione per poter essere salvi. Il verbo “salvare” è usato spesso in relazione ai miracoli, e per indicare una salvezza che non si esaurisce con essi, ma che è adesione al Vangelo di Gesù. La reazione contraria è quella dell’incredulità che invece ha come conseguenza la condanna.
Nel prospettare una comunità in missione, il Risorto indica anche quali sono i segni di questa salvezza. I segni diventano il tratto caratterizzante la comunità credente. Nel vangelo di Marco l’attività di cacciare i demoni, che è tipica di Gesù e dei suoi discepoli, adesso diventa anche compito della Chiesa dopo la Pasqua. Il parlare delle lingue potrebbe rifarsi al modello delle comunità paoline, nelle quali si verificano esperienze estatiche di glossolalia (parlare le lingue), come pure al dono dello Spirito che rende possibile una comunicazione piena del messaggio evangelico, anche a chi non è della stessa razza o cultura.
Il prendere in mano i serpenti ricorda la scena del ritorno dalla missione dei settantadue, ai quali Gesù aveva dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e la scena di Paolo a Malta che, morso da una vipera, ne esce illeso. La responsabilità affidata abilita i missionari ad affrontare anche le difficoltà e le contrarietà di una creazione ancora minacciata dalle forze del male. Infatti, anche l’assicurazione che se i discepoli berranno veleni non moriranno, viene a confermare questa esperienza. L’ultimo segno consiste nell’imposizione delle mani ai malati, tipica gestualità del taumaturgo, fatta propria anche alcune volte da Gesù e che adesso trasmette ai discepoli.
La conclusione del discorso di commiato dà adito all’epilogo con la scena dell’ascensione, che nella tradizione biblica è propria della letteratura dell’evangelista Luca. Il verbo usato per descrivere “il salire al cielo” è quello riportato da Luca negli Atti degli Apostoli che significa “raccogliere, prendere sollevando”. In Marco, il verbo al passivo dal valore teologico (fu elevato), sottintende l’azione di Dio che prende con sé Gesù.
Il testo si rifà al modello letterario giudaico ed ellenistico per descrivere il rapimento di personaggi con un importante ruolo storico-salvifico, in base al quale sono ammessi alla comunione co Dio. Accanto al modello dell’ascensione, il destino di comunione di Gesù con Dio è interpretato da quello dell’intronizzazione, di cui si parla nei salmi. Sullo sfondo si intravedono le immagini bibliche dell’ambito regale e del trionfo dell’eroe, usate nelle prime comunità cristiane per esprimere la condizione esaltata di Gesù Risorto. Il sedere “alla destra” indica l’ambito salvifico della sua missione gloriosa e autorevole. In tal modo, l’identità di Gesù, in polemica con gli scribi che attendono il Figlio di Davide, può essere compresa attraverso il salmo 110, in cui il Messia siede alla destra del Signore.
“Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano” (v. 20). L’effettiva missione degli Undici, secondo le parole del Risorto, non conosce limiti spaziali. L’avverbio “ovunque”, che era servito a presentare l’estensione della missione di Gesù in tutta la Galilea, adesso invece designa un’attività ecclesiale non più delimitata da nessun confine. Gesù è ancora presente nell’azione missionaria (agisce insieme e conferma), anche se egli non è più il protagonista fisicamente presente sulla scena storica. Il mandato ecclesiale è qui sintetizzato attraverso due elementi: la parola e i segni. La prima, proclamata da Gesù, è stata registrata nel vangelo; i secondi sono quelli che il Risorto stesso aveva precedentemente indicato.
Ai suoi Gesù chiede di affrontare il mare aperto, le tempeste della storia, di disperdersi dopo aver vissuto tre anni di vita insieme con Lui. Perché? Perché hanno tra le mani un Vangelo, la buona notizia, mai sentita, qualcosa di veramente nuovo, che può cambiare la vita, trasfigurare l’esistenza, aprire i cuori alla speranza e alla gioia. Niente di logorato dal tempo, di scontato e prevedibile, ma qualcosa di veramente inedito. Come inedito è l’amore di Dio, la sua misericordia, quello che egli ha fatto in Cristo Gesù.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Grasso, 2021; Laurita, 2021
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