Il turista che viene a Roma per la prima volta, dovrebbe fare tappa qui. Poi dovrebbe andare a vedere il plastico in gesso alabastrino di Italo Gismondi al Museo della Civiltà Romana che riproduce la Roma imperiale al tempo di Costantino.
Due visite fondamentali per avere un’idea della grandezza e dell’ingegnosità dei discendenti di Romolo, utile per poter poi comprendere appieno ciò che essi ci hanno lasciato e che incanta da sempre il mondo intero.
Se la seconda tappa costituisce una sorta di volo sulla città eterna in scala 1:250, il “qui” di cui sopra è la più estesa e meglio conservata fortificazione del mondo classico: le Mura Aureliane.
E non c’è bisogno di volare per poterla osservare.
Basta prenotarsi online e recarsi in via Campania, davanti ad un piccolo cancello grigio proprio di fronte al civico 31 dal quale si accede ad un tratto appena restaurato delle mura, oggi finalmente aperto al pubblico, la cui visita è imprescindibile per rendersi conto della reale importanza di quest’opera gigantesca compiuta dall’Imperatore Aureliano in soli quattro anni, dal 271 al 275 d.C e poi restaurata e rinforzata dagli imperatori Onorio e Arcadio circa centoventicinque anni dopo.
Delle mura Aureliane ho parlato tante volte, purtroppo sempre e solo per denunciarne il degrado causato dalla presenza di baraccopoli che fioriscono e prosperano in alcuni tratti a ridosso di quest’opera ciclopica.
Ma qualche giorno fa mi sono imbattuto nell’annuncio di una visita guidata nel tratto appena restaurato che divide l’ultima parte di via Campania prima dello suo sbocco su via Veneto da Corso d’Italia e non ho potuto fare a meno di sfruttare questa incredibile occasione per osservare finalmente le mura non dal punto di vista del degrado, ma da quello, molto più appagante e nobile , storico-archeologico.
Ed eccomi dunque davanti al cancelletto grigio con la mia MIC card in mano, insieme a un folto gruppo di appassionati, curiosi, amanti della caput mundi.
Entriamo uno dietro l’altro in un silenzio irreale, come se il solo trovarsi all’interno di queste mura annientasse i sensi per far posto al rispetto reverenziale verso il capolavoro dei capolavori di una delle più grandi civiltà della storia umana.
Solo la loro lunghezza è un numero da capogiro: 18,837 metri.
E la larghezza non è da meno: 19 metri di spessore, fra muro vero e proprio e servizi annessi, il che vale a dire 5 metri per la ronda interna, 4 metri per lo spessore medio del muro strictu sensu e 10 metri per la guardia esterna.
Per quanto riguarda l’altezza, si parla di 6 metri, ma se si considerano i 2 metri di fondamenta, questa diventa di 8 metri che poi raddoppierà con le modifiche successive.
381 torri a pianta rettangolare si ergevano ogni trenta metri; ognuna di queste era fornita di finestre laterali che assicuravano un raggio d’azione lungo tutto il il tratto di muro fino alla torre successiva e coprivano gli inevitabili “punti morti”.
14 porte principali consentivano l’entrata e l’uscita di carri e merci, ma c’erano anche molte altre porte secondarie per il solo passaggio pedonale e diverse aperture che consentivano un rapido movimento dove fosse necessario.
Nel tentativo di abbassare i costi e accorciare i tempi di costruzione, si decise di usare le maniere forti facendo passare il muro attraverso terreni del demanio imperiale e, laddove non fosse stato possibile evitarlo, di inglobare nella cinta muraria costruzioni antiche, acquedotti, edifici imperiali (come l’Anfitetaro Castrenese), ville aristocratiche, strutture militari (Castro Pretorio) e monumenti funerari (Piramide Cestia).
C’è chi ha voluto vedere il tracciato delle mura romane come un perimetro atto a racchiudere le simboliche figure di una stella a sette punte e di un’aquila, richiamando con ciò tutta un’iconografia romano-imperialistica a cui di certo non doveva essere insensibile un imperatore del calibro di Aureliano.
Se invece volete un paragone con i tempi moderni, basta confrontare il percorso delle mura su una mappa con il simbolo della lupa cucito sulla maglia della squadra di calcio della Roma e noterete l’incredibile somiglianza tra le due immagini…
Ma torniamo alla nostra visita e alla scoperta di questo incredibile luogo.
Dopo una spiegazione generale, eccomi su una ripida scala che porta su una torre che non molto tempo fa era utilizzata da artisti. Ne parlerò più avanti.
Mentre muovo i miei passi sul camminamento del “primo” muro, quello di Aureliano alto 6 metri, e l’emozione quasi mi fa tremare le gambe, non posso fare a meno di pensare alle shock che un’opera del genere dovette causare alla cittadinanza abituata fino a quel momento all’apertura verso il mondo esterno e che ora veniva chiusa, se pur per ragioni difensive dovute alle sempre più frequenti incursioni barbariche, in una sorta di prigione fatta di più di cento milioni di mattoni dalla quale diventava improvvisamente difficile sia l’entrare che l’uscire.
E poi ecco una ripida scala che conduce al secondo camminamento, quello di Onorio, ad una altezza doppia e a una delle torri, uscendo dalla quale si gode di un panorama spettacolare: villa Borghese, con i suoi pini dall’imponente chioma che sembra sostenere il cielo, giù in fondo Monte Mario, e più lontano ancora, quasi nascosta tra mille sfumature di verde ondeggiante, ecco il tetto della cappella Sistina finché non si abbassa lo sguardo per abbracciare porta Pinciana e il viavai caotico di via Veneto.
Mentre la guida spiega la tecnica dei romani per scaricare in maniera uniforme il peso della volta ad ombrello facendolo gravare su una base ottagonale con archi che a loro volta poggiano su mensole, mi avventuro in solitaria in una piccola passeggiata che mi conduce alla torre successiva mentre alla mia sinistra scorre il mio tempo con il susseguirsi delle facciate degli eleganti palazzi di via Campania, a destra il verde di villa Borghese e sotto i miei piedi la fierezza e la maestosità di una costruzione vecchia di milleseicento anni e ancora praticamente intatta, una sorta di corridoio della storia che rapisce e fa sognare come o forse più di qualsiasi altro tesoro di Roma.
Poi torno indietro, imbocco la stessa, ripida scala da cui sono salito poco prima. Scendo appoggiandomi con la mano destra al muro, seguendo il giro destrorso della scala uguale per tutte le scale delle mura e scopro che c’è una ragione anche per questo. I Romani calcolavano tutto, nulla era lasciato al caso.
Una scala “destrorsa” fa sì che un eventuale assalitore che debba scendere dalla sommità del muro conquistata sia, con nove probabilità su dieci, destrimano e quindi costretto a parare con la destra (limitata dal muro nel movimento) e, semmai, ad usare la sinistra per offendere, ma con difficoltà. Al contrario, chi sale e deve respingere l’assalitore, usa il braccio sinistro, limitato dal muro, per parare e il destro, libero nel movimento, per offendere, e dunque, nel duello, è avvantaggiato.
Torno sul primo camminamento e scopro una vecchia stufa addossata al muro. Si tratta di una delle tracce di quegli artisti, pittori, scultori, ceramisti, ai quali furono assegnati nel XIX secolo ampi tratti delle mura da utilizzare come studi e laboratori.
Queste testimonianze sono ovunque, insieme a quelle di coloro che, abusivamente, occuparono nel tempo porzioni di edificio facendone delle vere e propie abitazioni.
E di nuovo eccomi a camminare nel terzo secolo e a notare altre soluzioni ingegnose, come gli amboni, spazi semicircolari che permettevano agli arcieri di tendere la corda dell’arco portando il gomito all’indietro senza correre il rischio di urtare e intralciare chi si spostava, magari correndo, per accorrere dove c’era necessità di intervento. Di nuovo l’ingegnosità romana che mi ha sempre affascinato e non finisce mai di stupirmi.
Infine esco.
Cammino rasentando le mura dove la vita, sotto forma di rigogliose piante di capperi, continua a prosperare infiltrando le proprie radici tra i secolari mattoni e traendo da questi l’energia per sopravvivere.
E questa energia incurante del tempo che passa è impressa nelle vetrate dell’edificio polifunzionale progettato dallo studio Passarelli negli anni ’60, all’angolo tra via Campania e via Romagna.
Al primo, secondo e terzo piano, ci sono gli uffici racchiusi in un volume vetrato, della stessa altezza delle mura aureliane che lì si specchiano duplicando la propria visione e forma un angolo acuto all’incrocio delle due strade.
Un effetto voluto, frutto di una ingegnosità creativa che, riflettendoci a posteriori, è la stessa di diciassette secoli prima.
Meraviglie moderne fronteggiano, rispettandosi, meraviglie del passato con la strada che, al pari del piano di camminamento delle mura, fa da corridoio del tempo e involucro protettivo dello stupore di chi vi si trova a percorrerla.
Nei secoli, quest’opera ciclopica ha resistito agli attacchi di ogni tipo di invasori, dai barbari ai piemontesi, sedici secoli dopo la loro edificazione.
Una palla di cannone, sparata dalle truppe piemontesi nel 1870, è incastonata nelle mura e chiaramente visibile da Corso d’Italia; sembra quasi esposta con crudele sagacia perché sia da monito a chiunque venga in mente di distruggere un monumento, perché di questo si tratta, di tale bellezza e importanza.
E penso che non ci sia maniera migliore di questa di terminare la visita delle mura aureliane.
Quello squarcio aperto dalla palla di cannone, quel piccolo spazio aperto ma definito, rende ancora più meravigliosamente drammatica e stupefacente, l’infinita bellezza di una città alla quale spazio e tempo, come fa ogni visitatore, si inchinano in silenzio.
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