Little Fires Everywhere: ad andare in fumo soprattutto il gusto della misura
Su Amazon Prime la serie Little Fires Everywhere (“tanti piccoli fuochi”), che spalma su 8 puntate un melodrammone sugli scontri di classe
Dalle soglie dell’estate gli spettatori di Amazon Prime possono godere della serie Little Fires Everywhere (“tanti piccoli fuochi”), che spalma su 8 puntate di un’ora circa un melodrammone manicheo sugli scontri di classe, di razza, di genere, di generazioni, di caratteri, e chi più ne ha più ne metta. Nulla ci viene risparmiato.
Una agiata madre bianca in un quartiere ricco di una cittadina americana si atteggia a so-tutto-io e mima per sé e la sua instabile e agitata famiglia una perfezione che non c’è. Un prototipo di whiteness per gli amanti delle tesi. A far saltare i giochi, arriva una artista nera che gira senza requie per gli States con sua figlia. E noi sappiamo che tutto andrà verso un catartico finale col botto, perché ci è anticipato nelle scene iniziali.
Ecco perché non ci piace Little Fires Everywhere
Ma non dilunghiamoci sulla trama, facilmente reperibile. Lasciatevi dire perché a noi non piace neanche un po’. Anche se, a dirla tutta, siamo convinti che piacerà (e sappiamo che è piaciuta) a non pochi. Il confronto tra le visioni del mondo ha sempre attirato, e qui ce n’è da abboffarsi. Per di più ad alzare il gradimento della serie sono proprio i suoi difetti.
Primo peccato, l’abbiamo anticipato, i caratteri sono tagliati con l’accetta (quando non addirittura appiccicati al servizio del copione, come l’asiatica Bebe e tutta la sua storia) e, affinché non sorgano dubbi, sentimenti ed emozioni vengono dopati chiedendo (o consentendo?) alle protagoniste di inalberare le faccine.
La bianca e la nera, storia tutta al femminile
D’altro canto le si invitava a nozze: Reese Whiterspoon (la bianca) fa da sempre delle smorfiette la cifra della sua recitazione. E qui clona la parte già collaudata in Big Little Lies – da cui la serie scippa a man bassa – dove di fatto faceva lo stesso personaggio. Più monotematica Kerry Washington (la nera), che qui inalbera una smorfia sola, quella di una umanissima, solidale, dolente consapevolezza dell’imperfezione del mondo, e di comprensione per le vittime delle piccoli e grandi ingiustizie che ne scaturiscono.
Che però non le impedisce – in nome del libero e dell’alternativo – di manipolare e sacrificare chi le sta intorno, foss’anche la figlia. Non per niente le due protagoniste sono entrambe produttori esecutivi della serie, che hanno evidentemente plasmato sulle proprie corde. Molto più brava e mutevole la giovanissima Lexi Underwood, che fa la figlia nera attratta dalla vita dei bianchi benestanti. I maschi della storia non sono altro che fuchi, funzionali ad alcune dinamiche indispensabili al copione, ma privi di costrutto. Questa è un’opera, come alcuni si compiacciono di dire, “tutta al femminile”. Espressione e categoria che già non ci piacciono, come il suo omologo maschile. Non amiamo proprio il concetto di buono per un solo genere, rivolto solo o soprattutto alle femmine oppure ai maschi.
La ricerca del melodramma a tutti i costi
E qui viene l’altro peccato capitale della serie: la ricerca del melodramma a tutti i costi, speziando situazioni e ingredienti, produce paradossalmente l’effetto opposto. Fino a ridurre personaggi e scene madri a caricature; complici anche dialoghi, scelte di montaggio e tempi, scene e luci, che virano pesantemente ora verso la soap, ora verso la presa di coscienza LGBT, ora verso la fiction per adolescenti (tipo l’ultimo Disney Channel), ora addirittura verso la telenovela brasiliana.
Concludiamo disilludendo – ahimè – coloro che si avviano a scegliere la serie attratti da quello che ne ha scritto giorni fa un noto settimanale aspirante maître à penser della borghesia colta: “suspense à gogo”. Temiamo che il recensore lo abbia dedotto dal trailer, l’unica cosa che ha visto.