Il lockdown delle metropoli, titola oggi a tutta pagina il quotidiano la Repubblica. Quel termine che ci riporta tristemente alla scorsa primavera quando la pandemia apparve per la prima volta nelle nostre vite, torna ora minaccioso. In qualche modo, si era cercato nelle scorse settimane di esorcizzarlo. Erano apparsi confinamento, quarantena, reclusione, clausura di fronte ai primi provvedimenti di limitazione della circolazione in alcune regioni e città. E non solo per sconfiggere l’anglismo, quanto per allontanare quel tempo vissuto che non si vorrebbe più rivivere.
Confinamento? richiama eccessivamente ‘confino’ e quindi storie di esilio che lasciamo allo scorso secolo. Clausura? appartiene a suore e conventi, “questioni antiche e severe” ha commentato Corrado Augias . Quarantena? Reclusione? chi non trova qualche facile obiezione al loro uso. Il lockdown è parola ormai impostasi perché ormai la associamo a quella esperienza, “non paragonabile a esperienze già note” spiega Stefano Bartezzaghi. E lockdown, purtroppo, sarà. Nelle ultime ore, un tentativo di contrastare, linguisticamente e non solo, l’ineluttabile viene da due espressioni volte a temperare il drammatico portato di questo anglismo.
Stiamo parlando di ‘lockdown light’ e ‘lockdown generazionale’. Il primo, molto usato sui media e social tedeschi sembrerebbe descrivere “misure meno restrittive di quelle già sperimentate la scorsa primavera”, sottolinea la terminologa Licia Corbolante, e non rappresenta una vera novità in quanto già usato da diversi mesi per descrivere le misure attuate in altri Paesi e qui da noi spesso equivalente ad altre espressioni come mini-lockdown o lockdown parziale. Altra questione è il ‘lockdown generazionale’ o ‘lockdown anagrafico’: una espressione che equivale a una misura tesa a separare gli anziani dai giovani, limitare le attività di chi è più avanti con l’età e quindi considerato più fragile.
“Se il governo avesse spinto dove possibile per una separazione tra giovani e anziani nel mese di settembre, la seconda ondata di infezioni dovute al Covid-19 avrebbe riguardato prevalentemente i giovani e le unità di terapia intensiva degli ospedali non sarebbero di nuovo vicino al collasso a causa della pandemia”, lo scrivono tre economisti, Favero, Ichino e Rustichini su lavoce.info, ricordando come “su oltre 37 mila morti per Covid-19, solo 409 avevano meno di 50 anni e solo 19 meno di 30” mentre mietono più vittime le strade italiane dove “nel 2019, sono morti 542 ragazzi con meno di 29 anni”. “Resto convinto che sarebbero più utili misure per proteggere o lasciare a casa le persone più fragili, gli anziani e chi convive con varie patologie”, ha rilanciato nei giorni scorsi il Presidente della Liguria, Giovanni Toti.
“Vuol dire che muoiono solo gli anziani malati? No. Vuol dire che sono i giovani a infettare? No. Vuol dire che siamo tutti a infettare ma che chi muore o ne esce con le ossa rotte è quasi sempre anziano o fragile di salute”, specifica Riccardo Maggiolo su huffingtonpost.it.
“Se penso che ci sarà un bus riservato a me e a altri ultrasessantenni, mi vengono i brividi”, scrive oggi Giuliano Ferrara su Il Foglio, “fa accapponare la pelle anche l’idea della separazione dei giovani dai nuclei famigliari in cui abitano i vecchi (…) ma ragionando un po’ più a fondo, misure di separazione per fasce d’età sembrano ragionevoli, semplicemente ragionevoli”.
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