Gesù riprende a insegnare alla folla “in parabole” (Mc. 4, 26-34), ponendo a tema il mistero del regno di Dio: la parabola dell’uomo che getta il seme e cresce da sé e quella del granello di senape. In entrambe, l’universalità del Regno è espressa con la locuzione “sulla terra”: il seme della Parola viene sparso sulla terra, l’intera umanità. Tale semina di Dio nell’uomo innesca una nuova generatività e le immagini scelte per rappresentarla sono un capolavoro narrativo.
Tre sono i soggetti principali della prima parabola: uomo-seme-terra, inglobati in un processo generativo nel quale si intrecciano in più punti. La parabola inizia citando l’uomo: “Il regno di Dio è simile a un uomo che getta il seme” (v. 26). Di quest’uomo viene evidenziata l’azione in tre tempi: la semina, che dà il via all’intero processo vitale narrato da Gesù; un periodo prolungato di inattività, “dorma o vegli, di notte o di giorno” (v. 27); la prontezza nella mietitura, quando il seme è pronto. Il suo ruolo in tale processo del Regno è essenziale sia all’inizio, per dare via al ciclo con la semina, sia nell’intervento finale, per evitare la dispersione del frutto maturato.
Del seme viene enfatizzata da Gesù la forza endogena, espressa in una sequenza scandita da sette tappe: il seme germoglia, si allunga, presenta lo stelo, poi la spiga, quindi il chicco pieno, e solo alla fine il frutto maturo, pronto per la mietitura (vv. 27-29). Tale schema settenario impiegato da Gesù ricorda quello creativo della Genesi, quando Dio creò il mondo. Il sette è il numero dell’armonia e della perfezione. Così, come sette sono le parole del primo versetto della Genesi e i giorni della creazione, così qui le sette tappe non sono casuali: sono un progetto e un percorso formativo-creativo, come gradi per una trasformazione dell’umanità (la terra) che, alla sequela di Cristo, riceve la Parola (il seme), e mostrano un legame fra piano creazionale e storico-salvifico.
La terra è il luogo che consente tutto questo processo vitale: lo spazio in cui la vita presente nel seme, da sola, si manifesta in maniera misteriosa. Gesù dice: “spontaneamente la terra fruttifica” (v. 28). L’aggettivo greco “automate” (di proprio impulso, da sé), è posto in posizione evidente all’inizio della nuova frase: è il perno della similitudine di Gesù e indica che qualcosa avviene da sé, senza causa visibile.
Alla luce dell’interazione di questi tre soggetti (uomo, seme, terra) va colto il senso pieno della parabola: il seme gettato, ossia il vangelo annunciato, ha una forza vitale in sé stesso, però non può schiudersi da solo, ha bisogno di qualcuno, l’uomo, che lo semini e di una terra che lo accolga, noi, che permetta alla sua forza vitale di esprimersi. Chi semina è paziente e amorevole nell’attesa vigilando la crescita del seme, e mette mano alla falce solo quando il “frutto lo permette” (v. 29), lo consente, lo concede.
Il frutto del Regno “si dona, si consegna” per essere mietuto, come avviene alla fine di un lungo processo di maturazione e con il pane e il vino dell’eucaristia. Non è un caso che Gesù usi il verbo “si consegna”, chiave degli enunciati sulla sua passione: “Il figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini, ma dopo tre giorni risorgerà” (9, 31). Questo è il mistero del regno di Dio: l’incontro dell’umanità con il seme, che ha in sé una forza capace di trasformare le persone e le comunità umane, guidandole verso la meta di un amore che si dona completamente.
Ciò mostra come il regno di Dio superi i confini della storia e coinvolga tutti, per arrivare nella storia alla tappa finale ed entrare nella “consegna”, cioè essere inseriti nella comunità nuova/definitiva. Mentre il processo interiore dell’uomo rimane segreto (v. 27), il suo frutto diventa a poco a poco visibile, fino a raggiungere la sua pienezza: l’assimilazione con Gesù, aprendo un orizzonte di gioia, di fiducia e di abbondanza per tutta la comunità umana.
Nella seconda parabola Gesù afferma che il Regno è “come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto” (vv. 31-32). Nel contrasto tra la piccolezza proverbiale del granello di senape e la pianta che ne deriva, abbiamo un’espressione della medesima certezza di fede espressa nella parabola precedente: dagli inizi più umili si può già scorgere il compimento finale di Dio. L’immagine dell’albero grande alla cui ombra dimorano gli uccelli del cielo, fa ricordare il cedro salvifico, opera di Dio, annunciato dal profeta Ezechiele (17, 24).
Gesù mostra così come nella Parola sia all’opera la grazia di Dio; questa consapevolezza può e deve incoraggiare il lettore-discepolo. Marco alla fine ribadisce l’importanza della parabola come strumento privilegiato dell’insegnamento di Gesù, evidenziando anche una tensione tra capacità di ascolto e comprensione. Precisa pure che “in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (v. 34). C’è una differenza tra la folla e i discepoli, con la motivazione esplicita: “a voi è stato dato il mistero del Regno di Dio, per quelli di fuori tutto avviene in parabole” (v. 34). C’è una soglia da attraversare: passare dalla folla ai discepoli.
Poiché la parabola porta a pensare, essa inquieta e interroga. Svela e nasconde, facendo entrare nel mistero del Regno colui che ha il cuore pronto ad ascoltare, lasciarsi amare e trasformare. Solo la storia di Gesù aiuta a cogliere in profondità la parabola: i suoi gesti e parole, croce e risurrezione, sono la parabola che illumina tutte le parabole. L’atteggiamento di ascolto non basta: esso deve essere seguito dal discepolato.
Il capocordata.
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