Gesù non disdegna gli inviti ai banchetti, e coglie l’occasione per conversare con i commensali su diversi temi. Invitato in casa di uno dei capi dei farisei (Lc. 14, 1. 7-14), Gesù osserva la scelta dei posti da parte degli invitati e rivolge ai presenti un insegnamento relativo all’umiltà e alla gratuità che devono caratterizzare il credente.
Gesù è invitato a pranzo ancora una volta in casa di uno dei capi dei farisei, e i commensali lo tengono d’occhio, badando con attenzione alle sue parole e ai suoi gesti. Ma è lui che pone attenzione alla scelta dei primi posti da parte degli invitati. Essere invitati alle nozze non autorizza a occupare i posti più in vista; infatti, nel caso in cui arrivi un ospite più ragguardevole, al quale sia stato assegnato il primo posto, con disonore dovrà cedergli il posto che ha occupato indebitamente, e spostarsi all’ultimo (v. 9).
L’esortazione di Gesù è a sedersi all’ultimo posto. Infatti, nel caso in cui colui che ha organizzato il banchetto, rivolgendosi a lui in tono amichevole, lo inviti a “salire più in alto” (v. 10) e possa essere onorato al cospetto di tutti i commensali. L’autoesaltazione è in palese contrasto con la scelta di Cristo di abbassare sé stesso, assumendo la condizione di servo; al movimento verso il basso di Gesù, fa da contrappunto l’intervento di Dio, che lo sovraesalta conferendogli il nome di “Signore”. E’ Dio che innalza chi si abbassa.
Gesù rivolge una parola più personale anche all’indirizzo del padrone di casa, invitandolo a riflettere sul criterio in base al quale selezionare gli invitati (v. 12). Nell’antichità era consuetudine circondarsi a mensa di persone amiche o familiari e, soprattutto, di persone benestanti. Il banchetto, infatti, era una preziosa occasione per consolidare o stringere rapporti di amicizia, siglare alleanze e impegni, soprattutto con chi occupava posizioni di privilegio nella società.
La possibilità di ricevere il contraccambio, o comunque di trarre giovamento sul piano della visibilità sociale ed economica, era la ragione sufficiente per limitarsi a invitare solo chi era nella condizione per poter contraccambiare. La proposta di Gesù sovverte una simile convenzione e suggerisce di privilegiare i poveri, gli storpi, gli zoppi e i ciechi, cioè quanti appartengono alle classi sociali impossibilitate a rendere il contraccambio.
Sono le categorie privilegiate, alle quali è destinato la proclamazione del Vangelo. Chi accoglie con gratuità e disinteresse quanti vivono in condizioni di disagio e di emarginazione, non perderà la sua ricompensa alla risurrezione dei giusti (v. 14). La disponibilità e la generosità verso gli ultimi, difatti, attirano la benevolenza divina. “Beati” (v. 14), pertanto, non sono solo i poveri, ma anche coloro che mettono in comune ciò che posseggono, condividendolo con gli indigenti, senza pretendere nulla in cambio. La ricompensa sarà concessa alla risurrezione dei giusti, alla fine dei tempi.
E’ un atto di fede nella provvidenza divina: il cristiano non deve lasciarsi condizionare dagli schemi culturali e dalle scelte dettate dall’interesse; la gratuità che deve permeare le sue relazioni con il prossimo è il frutto più maturo della grazia che è stata riversata nel suo cuore dalla bontà divina.
Nel contesto del nostro vivere, esiste il pericolo di viziare i concetti onesti, di sporcare la grammatica delle parole anche quando servono a dare veste alla Parola: c’è il rischio di far dire all’intelligenza che il valore di mitezza sia un “limite”, una sfumatura poetica della debolezza e della fragilità di chi si arrende davanti a chi grida. Invece, il valore del “mite” è la sua tenerezza, ma nello spessore della maturità: un frutto tenero perché gonfio di succo e di dolcezza. Mite non è chi è vuoto di potere, ma chi è carico di vita.
L’umiltà non è la capacità di un inetto a nascondersi in sé stesso per non farsi calpestare di nuovo: umiltà ha il sapore e il colore della terra, perché “humus” (terra) è laddove un uomo ha radice: piedi ben radicati e sguardo pulito immerso nel cielo. Chi se ne rende conto è saggio, e mentre l’orgoglio e la superbia sono una pianta velenosa in terra sterile, il mite e l’umile riescono ad avere un dialogo con Dio, perché vibrano di vita, e hanno consapevolezza della loro esistenza fragile ma feconda.
Se viene meno la consapevolezza dell’umiltà, accade come chi brama il primo posto a un banchetto, uno scanno solenne che non gli è assegnato. Quando sarà additato, si accenderà di rosso il suo volto: sarà tutto rivestito di vergogna.
Gesù educa ancora, porta più in alto: non allestire banchetti per chi può dirti grazie, porta a tavola chi ha il profumo del vissuto, chi conosce la fatica della vita, chi non potrà ricambiare. Il ringraziamento più vero ti sarà riconosciuto di per sé stesso, dalla tua scelta: hai amato in modo libero, consapevole e felice.
E’ in tutte le situazioni in cui dono senza misura, rinuncio in anticipo al contraccambio, regalo a fondo perduto, che mostro di amare al modo di Dio. Il Padre celeste ignora completamente la partita doppia: per lui esiste solo il dono, e un dono totale, fino all’inverosimile. Il Signore vive la gioia di chi non ha secondi fini, ma compie ogni cosa solo per il bene dei suoi figli.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Landi, 2022; Toffolon, 2022; Laurita, 2022.
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