La seconda parte del discorso “della pianura” (Lc. 6, 27-38) è incentrato sul motivo dell’amore per i nemici: gli apostoli, i discepoli, il popolo sono posti di fronte all’esigenza dell’ “amore”, che deve ispirarsi alla misericordia di Dio (v. 36), che concede la sua benevolenza ai giusti e ai malvagi. E’ senza dubbio il vertice più elevato della proposta di Gesù: la sua affermazione originale trova la radice nel cuore misericordioso di Dio.
L’ostilità che i discepoli di Gesù saranno costretti a sopportare a causa del Vangelo non dovrà essere fronteggiata con la violenza, ma disarmata dall’amore. Chi accoglie la novità del regno di Dio non può limitarsi ad amare il prossimo, ma si impegna a essere benevolente verso tutti, senza preclusioni di ordine etnico, religioso o sociale.
In particolare, i nemici non devono essere odiati, bensì amati e trattati bene; su di essi va invocata la benedizione e non la maledizione; per essi occorre pregare. La reazione all’astio subìto, sul piano comunitario o personale, non prevede di ripagare i nemici con la stessa moneta, secondo la legge del taglione, basata sul principio dell’occhio per occhio e dente per dente. Porgere l’altra guancia (v. 29) è il gesto, in un certo senso, provocatorio di chi desiste dalla vendetta, ma non rinuncia alla giustizia.
I discepoli dovranno fare i conti anche con il sopruso: al ladro o al malfattore che pretenderà di portare via il mantello, essi concederanno anche la tunica, disposti ad accettare la condizione di nudità e di vergogna che ne consegue.
La disponibilità ad assecondare la richiesta di chi è nel bisogno consente di improntare la propria vita alla logica dell’oblatività (dono), anziché del possesso egoistico; unitamente, alla rinuncia di pretendere la restituzione di quanto è stato sottratto, seppur in maniera violenta o fraudolenta, è il modo più concreto di realizzare la “regola aurea”, che deve sovrintendere alle relazioni interpersonali: “come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro” (v. 31).
“Amare, praticare il bene, fare un prestito” sono gesti che nobilitano il cuore dell’uomo e della donna; tuttavia, ai discepoli è richiesto un “di più”: se si agisce adottando la logica dell’ “esclusività”, amando solo quelli da cui si riceve amore, o del “contraccambio”, beneficando o concedendo prestiti solo a coloro che possono ricambiare ciò che hanno ricevuto, non si esce dalla logica adottata negli ambienti mondani.
Fa pensare l’affermazione di Gesù di contrapporre lo stile dei discepoli a quello dei peccatori (vv. 32-34); l’aggettivo (peccatori) richiama la distanza che il peccato crea tra l’uomo e Dio. In effetti, la mondanità aliena dalla comunione con Dio, mentre l’etica della “gratuità” consente all’uomo di recuperare la sua vocazione di creatura concepita a immagine e somiglianza divina. Difatti, il termine “chàris” può essere inteso nel senso della “gratitudine”, che non è riconosciuta a chi fa del bene o è disponibile a fare prestiti con la pretesa di riceverne il contraccambio; ma anche nel significato di “grazia”, richiamando l’agire gratuito e preveniente tipico di Dio.
L’amore donato, il bene praticato, il prestito concesso senza sperarne la restituzione, hanno un’unica somma ricompensa: divenire figli di Dio. Imitando l’atteggiamento di Dio, benevolo verso gli ingrati e i malvagi (v. 35), i discepoli sperimentano già nel tempo presente la condizione filiale. E così, come i figli sono chiamati a mettere in pratica le istruzioni paterne e a imitarne l’esempio, anche a essi è richiesto di adottare lo stile della benevolenza.
“Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (v. 36). Ancor prima di divenire compassionevole, il credente ha sperimentato la bontà divina, e si relaziona agli altri “perché” Dio è misericordioso. Ne consegue l’appello ad astenersi dai giudizi affrettati e prevenuti, evitando di condannare senza appello chi ha agito male o ha sbagliato.
La misura della misericordia, che deve ispirare la condotta dei discepoli soprattutto nel contesto della vita comunitaria, è la remissione dei peccati; il perdono concesso consentirà di vivere riconciliati con Dio, che non lesina la sua grazia, ma la concede a chi ha scelto la logica del dono e della gratuità.
L’immagine della “misura buona, pigiata, scossa e traboccante” (v. 38), che sarà versata da Dio nella falda dell’abito come quando si raccoglie il grano, è indicativa della sua eccedente bontà; la sua grazia non è riversata in proporzione alla generosità dell’uomo, secondo lo schema classico della retribuzione. Dio abbonda in misericordia, e chiede ai suoi figli altrettanto.
Possiamo metterci a interpretare finché vogliamo queste parole di Gesù, nel tentativo di annacquarle con le nostre considerazioni realistiche: esse rimangono lì, piantate nel bel mezzo del Vangelo, scomode e difficili da digerire oggi come duemila anni fa, quando sono state proferite. Amare i nemici, fare del bene a quelli che ci odiano, pregare per quelli che ci maltrattano: tutte queste cose hanno decisamente il sapore dell’impossibile.
Gli interrogativi e le obiezioni sono tanti e non irragionevoli. Ma la parola di Gesù rimane lì, al suo posto, chiara e forte, senza ambiguità e margini di manovra. In effetti ci viene proposto qualcosa di nuovo, di straordinariamente nuovo. Tanto nuovo da apparire, appunto, irrealizzabile, al di sopra delle nostre forze. Ma non è proprio questo che ci è stato donato, che ci è stato offerto dal Padre celeste nonostante le nostre infedeltà e il nostro peccato?
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Landi, 2022, Laurita, 2022.
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