Per la vita, per lo star bene senza troppe preoccupazioni, per godere anche del poco che puoi avere ma con un tempo illimitato e soprattutto per una natura spettacolare e un Amore per la mia terza vita. Amo il mio paese ma non ci vivo più bene. Le amicizie si diradano perché uscire è un problema. Il traffico, le multe, le buche di Roma, il caos che cresce. Anche andare al cinema è diventato un problema. Il Teatro non se ne parli.
Quando tutto diventa complicato, anche vivere è complicato. Tra le bollette che aumentano e che arrivano quasi ogni settimana e gli spazi di piacere che diminuiscono: ho perso fiducia nel presente e nel futuro. Anzi non lo vedo proprio il futuro dell’Italia. Posso andarmene e lo faccio. Svendo tutto, mobili, libri, dischi, tv, pentole, vestiti, soprammobili. I ricordi di una vita dati via come per liberarsi delle catene, per non avere più legami se non i ricordi e gli affetti più cari. Si può e dopo ci si sente meglio. Più leggeri.
Pronti ad affrontare il futuro da un’altra parte. Una terza vita dopo due matrimoni e due divorzi. Dopo 40 e più anni di lavoro svolto alla grande. Dopo due vite comunque belle, che mi hanno dato due figlie e tre nipoti. Me ne vado.
Sono un’emigrata o, se volete, un’immigrata in Dominican Republic. Non una clandestina. Qui ci sono gli immigrati “clandestini” ma così si chiamano solo gli haitiani senza “papel” (visto di entrata). Europei e nord americani sono “portafogli che camminano”, comunque, anche quando si fermano oltre il mese consentito. Per loro si chiude un occhio, basta che quando se ne tornano al loro paese, paghino un tributo che aumenta col numero dei mesi in più che si sono trattenuti irregolarmente e tutto si appiana. Le categorie sociali si basano sempre su quelle economiche.
Vivo al nord dell’isola, tra Cabarete e Sosua, nella provincia di Puerto Plata. Una regione sulla quale si investe molto, dovrà essere il polo turistico del futuro, come già lo è stato Casa de Campo presso La Romana al sud e come lo è attualmente il comprensorio di Punta Cana, dove la famiglia Rainieri, originari dell’Emilia, ha lottizzato terreni a iosa, attorno al loro aeroporto, un giocattolo da più quasi 2 milioni di visitatori l’anno, con circa 65.000 presenze quotidiane, nella sfilza di grandi hotel 4 e 5 stelle che occupano la costa, tra Bavaro, Friusa, Cap Cana, Rock Cana e località minori. Un’altra zona destinata ad essere sviluppata è la costa sud ovest, oltre Barahona, verso Pedernales. Ne parlerò più avanti.
Lo scorso anno sono arrivati circa 3 milioni di passeggeri nei vari aeroporti dominicani, di questi 2,5 milioni sono stranieri, cioè turisti. L’81%. È un flusso che cresce di anno in anno. Dagli arrivi nei vari aeroporti si vede che gli Americani e i Canadesi scendono preferibilmente a Punta Cana. Gli Italiani a La Romana. I Dominicani nel Cibao e a a Las Americas (in Capitale). Gli Argentini, i Francesi e i Tedeschi a Punta Cana. I 56.000 Spagnoli si dividono tra Las Americas e Punta Cana.
Gli Americani superano il milione, i Canadesi il mezzo milione dei viaggiatori. Gli Italiani sono arrivati in 36.000 circa lo scorso anno. A Samanà arrivano soprattutto Canadesi (34.500) e Tedeschi (5.000) e un italiano solo, chissà chi sarà. Strano perché tra Las Terrenas e Las Galeras ce ne sono parecchi e c’è anche un’associazione molto attiva sui social.
Dove vivo io gli Italiani sono qualche migliaio. In tutta l’isola pare siano 50.000, di cui 8.000 residenti riconosciuti e iscritti all’AIRE, l’associazione degli Italiani residenti all’estero. Molti hanno attività imprenditoriali lecite, qualcuno meno, i più sono pensionati soli, separati o divorziati. Qualcuno cerca donne di facili costumi. Aiutano l’economia povera dell’isola. Qualcuno ne ha abbastanza, gli basta star bene. Qui è sempre estate, si vive in ciabatte o infradito, maglietta e pantaloni corti.
Gli unici con le cravatte sono politici o avvocati. Anche i medici sotto il camice hanno la t shirt e il costume. Il sesso non è solo per gli uomini. Ci sono le signore medio-bene, single, che vengono qui in vacanza, rimorchiano i ragazzi per una sera o per una settimana, li pagano bene in cambio della compagnia. Il sesso è la seconda industria dell’isola caraibica, la prima è il narcotraffico, la terza il turismo e le costruzioni.
Solo a Sosua ci sono 23 punti di spaccio conosciuti, così mi dicono. Non è un mio problema perché da sempre ho rinunciato a questa forma di autodistruzione. Ma molti sono i clienti, di ogni età, sesso, nazionalità. Ogni tanto viene scoperto un enorme quantitativo di droga che arriva dalla Colombia, diretta ai Caraibi e agli Stati Uniti. Ho tanto l’impressione che sia tutto un teatrino per far vedere che si combatte il narcotraffico ma certamente non è un’industria in crisi.
La seconda industria è la prostituzione. Sosua ne è la capitale. Potremmo dire che è l’attrattiva principale della città, almeno per le comitive di “gringos prietos”, gli afro americani, alti due metri e tutto muscoli neri, che vengono, affittano un appartamento in tre o quattro, spendendo 500 dollari al mese a testa, e vanno a cercare ragazze, dai 18 (ma ce ne sono anche di minorenni) ai 35 anni, che la sera passeggiano avanti e indietro per la Pedro Clisante, in cerca di un gringo da spennare.
Ogni scopata varia tra i 1.500 e i 3.000 pesos. La spiaggia, una casa, oppure un’auto o las Cabañas sono sempre a disposizione. Las Cabañas sono degli alberghi a ore, con tutti i comfort. Si entra in un garage singolo e si posteggia. Si chiude la saracinesca. Si entra nella stanza attigua senza incontrare nessuno e nessuno ti chiede i documenti. Da una porticina girevole si comunica con il consierge che chiede tra i 500 e 1.000 pesos per 4 ore di permanenza.
Nella stanza tutto è pulito. Oltre al letto ci sono gli specchi, la tv con i film pornografici, il bagno, i condom, attrezzi vari per evoluzioni erotiche. Si può anche ordinare un sandwich, da bere, una cena. Ce ne sono lungo la strada, prima o dopo ogni città, con nomi di fantasia: Las Nubes, El Sueño, El Amor, Cupido… Queste ragazze spesso, per non dire sempre, hanno uno o più figli piccoli, nati da relazioni passate o attuali. Alle donne l’incombenza di mantenere i figli. I padri non sempre resistono nel ruolo, più spesso scappano e mettono in cinta altre ragazze, facendo una vita da “perditempo”.
Non sempre sono prostitute di professione. Sono donne in cerca di soldi per vivere. Se facessero un mestiere qualsiasi: pulire, lavare i piatti, cameriere, guadagnerebbero al massimo 8-9.000 pesos. Insufficienti per vivere in due un mese. Per vivere hai bisogno, senza l’affitto, di almeno 16.000 pesos al mese. Vendendosi ai turisti ne possono guadagnare molti ma molti di più, concorrenza permettendo.
Ogni tanto qualche ragazza ci rimette le penne, per ferite, lacerazioni, problemi di salute. Le malattie sessuali proliferano, i preservativi non bastano a scongiurare l’Aids, la gonorrea, la sifilide, il papilloma virus che può determinare il tumore della cervice dell’utero in alcuni casi.
Il tasso di crescita del pil nel 2017 era del 4,6%. Il reddito medio pro capite di 7.052 dollari. La popolazione non arriva a 10 milioni di abitanti. Il prodotto interno lordo era di 76 miliardi di dollari. L’inflazione c’è ma non si sente. La vita costa più o meno come da noi. I terreni e le case no, almeno un terzo o la metà.
I supermercati abbondano e sono sempre affollati da stranieri o dominicani che possono. Qui vige la cultura del “colmado”, sorta di empori dove trovi tutto sfuso a poco prezzo, meno i prodotti importati. Il dominicano compra tutto a porzioni. Le medicine, le sigarette, il cibo… lo sfuso va moltissimo, anche per i telefoni.
Compri giga e chiamate anche per un’ora, per un giorno, per cinque giorni. Tutti, anche i più derelitti, hanno diritto alla tecnologia, a spendere, a far ingrassare le multinazionali delle telecomunicazioni olandesi, messicane, americane… Oppure quelli dell’energia, delle costruzioni, dell’import-export di frutta, carne, vini, liquori. Anche se in questo paese tutti bevono il rhum (ron lo chiamano loro) della Bacardi, in tutte le sue strane versioni colorate e prezzi variegati.
Come in molti Paesi del Terzo Mondo ci sono cose che funzionano benissimo, meglio che da noi e altre che non funzionano per nulla. Tutto dipende dai soldi, come da noi, solo che qui è palese, dichiarato, non c’è nessun ipocrita welfare a salvare il culo delle persone. Se non hai un’assicurazione semplicemente non hai diritto a curarti. Ci sono gli ospedali pubblici ma è meglio se non ci vai.
Il telefono lo puoi ricaricare dappertutto, in farmacia, alla cassa del supermercato, dal fruttivendolo, alla bancarella del gioco della lotteria, che qui chiamano “banca”, mentre la nostra banca la chiamano “Banco”. Ma non puoi sbagliarti. Il banco lavora tutto il giorno dalle 9 alle 17, un sogno per noi Italiani abituati a orari assurdi di mezza giornata. Se blocchi i soldi che depositi per un numero sufficiente di anni, ti danno anche il 10% di interessi.
Puoi tenere conti in pesos, ma anche in euro e dollari. Il cambio è di 56 pesos per un euro e 50 per un dollaro. In banca ti trattano coi guanti qualsiasi sia la dimensione dei tuoi c/c. Tutti fanno la fila, manco fossero giapponesi. Noi Italiani ci adeguiamo, con fatica. Il problema è che le banconote più grandi al massimo sono di 2.000 pesos. Ci fai poco. Se devi pagare un affitto ce ne vogliono tra i 20.000 e i 40.000 e girare con 20 banconote da 2.000 in tasca o 40 da 1.000 non è tranquillizzante.
La vita non vale molto ormai, da nessuna parte nel mondo, figuriamoci qui dove la miseria vera c’è e si vede. Ti possono accoltellare per un Rolex o per un I-phone. Meglio non offrire occasioni del genere. Low profile sempre, mai ostentare, mai dare l’impressione di avere soldi in tasca, beni preziosi a casa. Chi lo fa prima o poi ne paga lo scotto ma la delinquenza c’è dappertutto, non solo qui. Se ti fai i fatti tuoi nessuno ti dà fastidio.
Solo cerca di non avere incidenti d’auto. Sei straniero e la colpa è tua anche se non è così. È una regola non scritta del posto. Anche la polizia stradale la applica, pur di ricavarne una “propina” (mancia). L’unica cosa è scendere dall’auto appena succede qualcosa di irregolare e filmare tutto o fotografare tutto quello che c’è in strada. Auto coinvolte, targhe, facce, tutto. Se non hai colpa nessuno ti coinvolgerà.
Le immagini sono una prova inconfutabile. Sanno di vivere grazie al turista ma sembra non si rendano conto che depredarlo alla lunga non paga e può far perdere loro la gallina dalle uova d’oro. Noi tutti facciamo lo stesso col pianeta, perché biasimarli?
Tornando a casa di notte vado piano. Pioviggina. La strada è stretta e ci sono buche. Non come a Roma ma arrivano inattese, data l’oscurità e potrebbero creare un problema. Vedo in lontananza un’auto parcheggiata sulla corsia di marcia. Ha le luci di posizione e sembra non ci sia nessuno sopra e vicino. Mi sposto sulla sinistra per evitarla ma non troppo, sennò invado la corsia opposta rischiando uno scontro frontale. A circa 20 metri vedo che ha lo sportello di guida aperto.
Lo evito ma con un guizzo da video gioco che spaventa la persona accanto a me. Quel criminale ha lasciato l’auto sulla corsia di marcia con lo sportello aperto senza un segnale. Forse stava scaricando qualcosa. Il rischio è che se non riesci a evitarlo glielo stacchi di netto con un parafango! E la colpa la danno a te. Un’altra volta trovo un furgone fermo di traverso in mezzo alla strada. È sempre notte ma qui la strada è illuminata, siamo in prossimità del semaforo di Cabarete.
Mi fermo lentamente, anche qui per non invadere l’altra corsia. Solo che come sono ferma arriva un “loco” (matto) di motociclista che va a stamparsi sul furgone e scivola sul fianco della mia Escape. Scendo. Nessun danno. Il ragazzo s’é sgraffiato faccia e corpo. È a terra ma non ha niente di rotto. La polizia chi ferma? La straniera: io.
Quando vado alla stazione di polizia del proprietario del furgone non c’è traccia. Invece c’è il padre del ragazzo ferito, che vuole da me 40.000 pesos. “Anche se ce li avessi non glieli darei, dico al capo della polizia. Io non ho colpa. Ero ferma perché un pazzo aveva il furgone messo di traverso e io non ho nessun danno come ha potuto vedere!”
Il capo della polizia mi guarda sorpreso: “Quale furgone?”
“Quello che era di traverso sulla strada, dove ha sbattuto la moto…”
“Ha la targa del furgone?”
“No… io no… ma la polizia che c’era l’avrà presa…”
Niente affatto. In quel momento ho realizzato il gioco. Il furgone era di uno spiantato senza assicurazione. L’unica che poteva pagare il ferito ero io. Se avessi avuto targa e foto del disgraziato furgone me la sarei cavata con zero pesos. Ma nella mia situazione il rischio è di finire davanti al giudice. E il giudice apre un processo e un processo –tu sai- può durare uno ma anche tre anni e durante il processo viene prelevato il passaporto e non puoi uscire dal paese. Che fai?
Il capo della polizia prende sottobraccio il padre della vittima e lo trascina fuori dalla stanza. Quando torna siamo scesi a 20.000 pesos. Accetto pur di levarmi dal combinato disposto in cui sono finita mio malgrado. Stretta di mano ma, un momento. Ci vuole l’avvocato che ratifichi l’accordo affinché io sia tutelata. Perché il turista va salvaguardato.
L’avvocato, per 2.500 pesos, sancisce che la vittima nulla avrà a pretendere da me per l’eternità. Solo che questo accordo ha da restare segreto. Nulla deve trapelare all’assicurazione. Perché? Perché è irregolare. Ah… All’uscita ringrazio il capo della polizia per l’intercessione. Si va bene ma manca qualcosa… La propina? Si la propina. Lui chiede 5.000, io propongo 1.500. A 3.000 ci stringiamo le mani. Con 25.500 pesos torno libera. Anche se non avevo colpa.
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