Vladimir Putin è sempre presente, soprattutto quando è assente. Potrebbe riassumersi così la torrida giornata di fine luglio in cui il Presidente russo è stato il convitato di pietra in ben due aule parlamentari: il Senato italiano, in cui si è tenuta l’informativa del Premier Conte sul caso dei presunti fondi russi alla Lega; e il Congresso americano, sede dell’audizione dell’ex Procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate. Due vicende molto diverse eppure molto simili, nella forma (dimostrata anche dalla scarsa originalità dei media nostrani nel trovare un nome all’affaire lombardo-moscovita) e anche nella sostanza: essenzialmente, il nulla.
È proprio questo il termine usato dal capogruppo del Carroccio a Palazzo Madama, Massimiliano Romeo, per liquidare «qualcosa che è più vicino alla fiction». Parole simili a quelle pronunciate nei giorni scorsi dal Ministro dell’Interno Matteo Salvini, che aveva affermato di occuparsi di vita reale, non di fantasie. Forse proprio per marcare la distanza con un’inchiesta già definita ridicola, il segretario leghista ha disertato l’informativa del Capo del Governo, mandando su tutte le furie il Partito Democratico: il cui leader Zingaretti ha pavlovianamente reagito annunciando una mozione di sfiducia contro Salvini, che otterrà solo di far perdere tempo al Parlamento, visto che non c’è possibilità che sia approvata.
Ma l’assenza del vicepremier ha infastidito anche il M5S, o almeno quegli esponenti che hanno abbandonato la Camera Alta appena prima che Conte prendesse la parola perché «oggi non era lui a doversi presentare in Aula», come ha precisato una nota dei grillini. Altri senatori pentastellati, come Michele Giarrusso, pensavano invece di essere usciti per protestare contro il “sì” del Presidente del Consiglio alla TAV. Quale che fosse la motivazione, non si sono persi granché, visto che Conte, specificando di non aver «ricevuto informazioni dal Ministro competente», si è limitato a ribadire che non ci sono elementi che incrinano la sua fiducia nei membri del suo Governo, che l’ormai celebre Savoini «non riveste e non ha rivestito incarichi formali di consulente esperto di questo Governo», ed era a Mosca un anno fa a seguito del ministro Salvini.
Tutte cose trite e ritrite. Così come era trito e ritrito tutto ciò che Robert Mueller, l’ex Procuratore Speciale per il Russiagate (quello “vero”, il che la già dice lunga), ha detto nell’attesissima testimonianza di fronte alla Commissione Giustizia della Camera U.S.A., dove era stato trascinato – pardon, convocato – dai Democratici per chiarire alcuni aspetti del rapporto finale sulla sua inchiesta.
Tuttavia, anche la deposizione di Mueller è stata un mezzo flop, come hanno ammesso tra l’altro vari commentatori della CNN – un network di cui si può dire tutto, ma non che sia vicino a Donald Trump. Mueller è apparso confuso, spaesato, spesso sulla difensiva, e varie volte ha risposto con dei monosillabi, come quando, a domanda diretta, ha negato che il suo rapporto scagionasse completamente il Presidente dall’accusa di ostruzione alla giustizia. Il magistrato ha inoltre affermato che Trump potrebbe essere incriminato alla fine del suo mandato (così come potrebbe non esserlo), il che in ogni caso non implica che il tycoon debba essere giudicato colpevole. Ovvietà, o cose già sentite.
Alla fine, The Donald ha ironicamente ringraziato i Democratici per aver voluto tenere l’audizione, rilanciando il commento del commentatore di Fox News Chris Wallace, che ha bollato l’intervento dell’ex superprocuratore come «un disastro per i democratici e un disastro per la reputazione di Robert Mueller». In qualche modo, il fil rouge è lo stesso per le due vicende, e non solo perché il colore rosso richiama ancora la bandiera sovietica. Entrambi i casi sembrano pistole spuntate, utili solo agli sconfitti per giustificare il crollo dei propri consensi ed evitare di dover procedere a una sana autocritica. È certamente più facile attribuire delle responsabilità a fantomatiche interferenze esterne che ammettere di aver governato male e aver perso il contatto con gli elettori.
Ma una favola, anche se bella, resta pur sempre una favola. E, storicamente, nessuna campagna di Russia ha portato bene a chi l’ha lanciata. I Democratici, indigeni e d’oltreoceano, farebbero bene a ricordarsene.
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