Cronaca

Nei luoghi di lavoro fanno carriera i più prepotenti, non i migliori

Un video su TikTok ha sollevato il tema di chi sono quelli che fanno carriera non per meriti ma per aggressività, prepotenza e capacità di sapersi vendere. È un problema serio che le organizzazioni di lavoro devono affrontare se non ne vogliono restare vittime.

Quelli che fanno carriera nel lavoro sono i più prepotenti, chi calpesta chiunque pur di raggiungere il proprio obbiettivo. Non so quanto questa osservazione sia fondata in base ai dati scientifici ma sembrerebbe, alla luce delle esperienze personali, abbastanza verosimile. Se, inclusa nella prepotenza, inseriamo anche il ricorso alla raccomandazione e alla pressione dall’alto, che in Italia è molto diffusa in ogni ambiente.

Un recente video su TikTok ha sollevato la discussione, seguita da molti utenti

Un recente video diventato virale su TikTok, postato dall’account @marthadrama, ha sollevato una discussione critica riguardo ai profili di persone che tendono ad avanzare più velocemente sul lavoro, analizzando le sfaccettature spesso nascoste di queste dinamiche. E si identificano due tipologie predominanti tra coloro che conseguono promozioni: il “voglio e non posso” e i “bulli”. Le due categorie si possono facilmente identificare tra coloro che sanno vendersi molto bene anche se non hanno le competenze necessarie e tra coloro che tendono a imporsi anche solo per il piacere di farlo, senza curarsi troppo delle responsabilità che dovranno assumersi e del male che fanno agli altri.

Il mondo del lavoro è una realtà complessa e variegata ma dove si ripetono problemi simili in tutti i settori

Il mondo del lavoro è una realtà complessa, dove spesso le dinamiche personali si scontrano con quelle delle strutture organizzative dei luoghi di lavoro. Anche se le tendenze sembrano ripetersi simili in tutti i posti di lavoro vi sono poi delle specificità legate al tempo, al luogo, al tipo di lavoro e alle dinamiche personali. In genere in Italia il talento conta fino a un certo punto nell’affermazione professionale. Diciamo che contano almeno alla stessa maniera le condizioni familiari, le parentele, le amicizie altolocate che si traducono in raccomandazioni.

Queste valgono soprattutto nel settore pubblico ma anche il privato non ne è immune, in quanto si tratta di una vera e propria forma mentis, una cultura, quello dello scambio reciproco, della mano che lava l’altra, che ritorna sempre quando si parla degli Italiani. Nord e sud non fanno differenza in questo caso.

Il tipo che non ha competenze ma si sa vendere

L’utente di TikTok identifica due tipi predominanti tra coloro che conseguono promozioni: il “voglio e non posso” e i “bulli”. Il primo gruppo racchiude individui che, nonostante manchino delle competenze e delle qualifiche necessarie, riescono a creare un’immagine di sé che suggerisce il contrario. Questi individui avanzano nella scala aziendale principalmente grazie alla loro abilità di autopromozione più che per meriti effettivi. Martha (di @marthadrama) si dice perplessa su come tali persone possano finire in posizioni di leadership, mettendo in dubbio l’efficacia dei sistemi di valutazione delle aziende. Ma è facile da spiegare.

Chi seleziona il personale non sempre sa farlo o magari non lo vuole fare

Chi deve selezionare il personale non è detto che sappia farlo nel bene dell’azienda e neanche è detto che voglia farlo. Potrebbe sovente rispondere ad altre logiche. Una volta la direttrice che mi dava indicazioni sul personale da cercare per il mio lavoro mi disse candidamente, ed aveva ragione, che il nostro compito non era di scegliere solo i migliori ma di accontentare chi ci chiedeva di far assumere i propri favoriti, perché era grazie a costoro che noi potevamo continuare a lavorare.

Nel gruppo di lavoro così ci doveva essere chi sapesse lavorare e chi ci consentisse di farlo. Se avessimo disattesi i vari raccomandanti non saremmo durati molto né lei né tantomeno io. Per fortuna non si trattava di un’azienda farmacologica o di un ospedale, anche se mi pare che certe cose avvengano ormai anche lì.

Il bullo ovvero chi si compiace della propria prepotenza e spietatezza

D’altra parte, i “bulli” invece sono descritti come persone con forti tratti narcisistici, pronte a tutto pur di scalare le posizioni aziendali, anche a discapito degli altri. Sono persone che però chi ha responsabilità di direzione riesce a contenere abbastanza o a deviare verso altre sedi. Sempre che non abbiano l’aiuto di personaggi di potere, che li impongano. Di regola tuttavia il bullo si fa del male da solo e anche chi lo vorrebbe raccomandare gli consiglia un profilo basso o al limite evita del tutto di raccomandarlo, perché esporrebbe sé stesso a una brutta figura.

Il bullo in effetti ama farsi strada da solo, con la sua prepotenza ma a volte anche mettendo in giro voci malevole su chi si frapponga tra lui e la carica che intende ricoprire. La volontà di calpestare i colleghi però potrebbe anche essere fine a sé stessa, una soddisfazione appunto bullesca e priva di risultati finali apprezzabili. Il bullo si scopre facilmente e crea antipatia nei colleghi, che si alleano per fargliela pagare, prima o poi.

Nei gruppi di lavoro servono sempre quelli competenti accanto a quelli raccomandati

Il video ha generato una valanga di reazioni, con molti utenti che hanno condiviso le proprie esperienze e osservazioni sui criteri di promozione. Come in effetti potreste fare voi che leggete inviandoci i vostri pareri. Alcuni commenti sottolineano come spesso i più competenti vengano mantenuti nelle loro posizioni per non privare l’azienda delle loro abilità specifiche, mentre altri individui meno qualificati, ma più abili nel gioco politico, avanzano. È stato anche suggerito che esista un terzo gruppo: coloro che costruiscono relazioni strategiche all’interno dell’azienda, avanzando grazie a connessioni piuttosto che a meriti. 

Se potessimo valorizzare il rendimento del personale in qualsiasi gruppo di lavoro, il 30% potrebbe tranquillamente restarsene a casa

Se si dovessero fare delle selezioni ulteriori all’interno di ogni azienda o ministero, per valutare l’effettivo apporto professionale di ciascuno ritengo che il 60-70% del personale potrebbe tranquillamente essere messo in liquidazione. Nella mia esperienza dove si lavorava in 100, in realtà erano addirittura solo una trentina quelli necessari a mandare avanti la baracca, gli altri avrebbero anche potuto restare a casa e forse se lo avessero fatto avrebbero dato una mano maggiore per una più alta efficienza.

Una volta ad una di queste persone, che non sapeva fare niente ma che per motivi politici veniva sempre riconfermata, chiesi esplicitamente di non venire in redazione, perché la sua presenza era di cattivo esempio e anche un’offesa per chi invece stava lavorando. Seguì il mio consiglio e non lo vidi più per tutto il tempo del lavoro, anche se continuò a percepire regolarmente lo stipendio e credo che continui tutt’ora a percepirlo pur continuando a non fare niente.

Carlo Raspollini

Autore e regista televisivo, responsabile marketing, consulente gastronomo e dello spettacolo, viaggiatore.

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