Da “Io speriamo che me la cavo” a “Io me la sono cavata“. Ci sono voluti trent’anni dall’iconico film di Lina Wertmuller del 1992 per capire come sono andate le vite di quei bambini del Sud, intrappolati in un presente complicato, vittime di un passato caustico e pungente. In un contesto che gli rimprovera di essere troppo giovani per diventare adulti, ma troppo grandi per assaporare le gioie della tenera età.
“Io me la sono cavata” racconta le storie di quei bambini a distanza di trent’anni. Quei bambini, che poi, in fondo, siamo tutti noi. Per comprenderlo abbiamo intervistato il regista Giuseppe Marco Albano che ha diretto il film-documentario.
Quale è stata la necessità, com’è nata l’idea di riproporre un lavoro del genere, in questa veste diversa?
“Io nasco come fan del film, un supercult degli anni ’90. Quelli della nostra generazione lo conoscono quasi a memoria. Ero coetaneo di quei bambini protagonisti e mi immedesimavo molto in quella storia, nonostante fossi originario di un’altra provincia. Ciò che mi avvicinò particolarmente a quel film furono dei racconti legati a mio zio. Lui lavorava a Taranto, dove stavano girando alcune scene del film. Mi raccontava delle strade bloccate e di quanto avveniva intorno a quelle giornate di riprese. Molti non sanno che il film è stato principalmente girato in Puglia, tra Taranto e città nel barese come Spinazzola, Corato e Altamura. Il mio percorso cinematografico mi ha concesso di incontrare e poi conoscere bene Adriano Pantaleo, al quale una volta chiesi. “Ma che fine hanno fatto tutti quei bambini della 3B, allievi del Maestro Sperelli”? Lui rispose che in tanti glielo avevano chiesto negli anni successivi. Decidemmo così di far partire questo documentario. Partì come un gioco, è stato un viaggio durato 3 anni che ci ha portato prima al Torino Film Festival e poi a breve in diverse parti di Italia”.
Come è stato rapportarsi e in un certo senso confrontarsi con Lina Wertmuller?
“Un incontro che spero ci abbia portato fortuna. Rapportarsi a un gigante come lei è stato un onore e un piacere. Mi ha dato la carica e la spinta emotiva per credere ancora nel sogno di fare il regista oggi”.
Qual è l’aspetto che ti è piaciuto evidenziare con la macchina da presa, che speri venga colto dallo spettatore?
“Quando io vedevo loro da piccoli, speravo di diventare come loro. Ero un ragazzo di provincia, mi sono messo a raccontare le storie, facendo il regista. Io sono legato a quei sogni, mi sento parte di quei sogni. Ciò che mi ha affascinato maggiormente di tutto quel mondo è il repentino e totale cambiamento che può avvenire nella vita di un bambino di 6-7 anni che vive un’esperienza del genere, con un film che diventa iconico. Tra gli impegni lavorativi e scolastici, sino ovviamente alla grande notorietà che ne consegue. Un aspetto psico-sociologico, secondo me molto interessante. Un cambiamento, vissuto in una fascia d’età che non ti consente di essere del tutto consapevole. E di quel momento e di ciò che vuoi diventare dopo questa esperienza. Considerando anche il fatto che per molti quella è stata davvero solo una breve e intensa esperienza, prima di intraprendere percorsi diametralmente opposti”.
Oggi la società è molto più smart, più cinica, più veloce, rispetto a trent’anni fa. Nella società di allora, si aveva più tempo e modo per lasciare spazio ai sogni, rispetto a oggi?
“Forse sì. Oggi i contatti sono più semplici, basta un sms su Instagram, anche a personaggi noti. Si ha l’idea della semplicità di ottenere una risposta. Ieri invece, non avresti forse nemmeno saputo come iniziare a scrivere una lettera. Molti dei bambini di oggi, li vediamo già cresciuti, più cinici. Probabilmente quindi, oggi sognare è più semplice. Ma al contempo, questa facilità forse fa perdere forza e valore al sogno. Il raggiungimento del mito, nella società attuale è più possibile. Vediamo questi bambini già cresciuti, che si danno delle arie. Che sono sicuri di raggiungere il loro sogno. Ma se il sogno si infrange, le delusioni sono più cocenti. A differenza di oggi, i bambini di ieri avevano maggiormente i piedi per terra. Anche a fronte di una forte notorietà, come nel caso dei bambini di “Io speriamo che me la cavo”. Loro sono riusciti a razionalizzare, comprendendo l’importanza di scegliere la strada migliore. Anche se totalmente diversa. C’è chi fa il pasticcere, chi il pizzaiolo. Poi, purtroppo, anche chi ha addirittura scelto una strada sbagliata, legata alla criminalità. Lo raccontiamo nel documentario”.
Abbiamo sentito anche Adriano Pantaleo, attore e protagonista nei panni di Vincenzino sia del lavoro della Wertmuller che all’interno di questo nuovo remake.
Adriano, i panni di Vincenzino vanno ancora bene per te? Cosa è cambiato oltre naturalmente all’età?
“Quelli li ho passati a mia figlia (ride, ndr). E’ cambiata un bel po’ la vita della nostra penisola. Raccontiamo come si sono modificate le storie di quei ragazzini, ma anche di quelle del nostro Paese. E insieme a loro, il modo di fare cinema“.
Come trovi questo Sud che voi avete raccontato e impersonificato? E’ cambiato o è sempre lo stesso?
“Ci sono stati sicuramente dei miglioramenti. Nel film, mostravamo i bambini sfruttati nel mondo del lavoro. Ricordiamo tutti la scena in cui il maestro va a prelevare i bimbi dal luogo di lavoro. Soprattutto la scena in cui c’è uno dei bambini, che lavora come barbiere, che sta insaponando il sindaco della città. In questo c’è stato un miglioramento, ma si è persa quella genuinità e spontaneità che quei bambini, che eravamo noi, avevamo. Oggi è tutto dovuto e costruito. Miglioriamo, ma non sempre con risultati totalmente positivi”.
Possiamo dire che essere bambini nella società di ieri e in quella di oggi è un’esperienza completamente diversa?
“Sì, con l’avvento dei social oggi c’è una società votata all’apparire. L’essere è quasi un tabù della nostra società. Siamo costretti ad apparire non per quello che siamo, ma per ciò che dobbiamo dimostrare di essere. Ai bambini di oggi sembra che sia quasi tutto dovuto, che viene bruciato tutto e subito. Ai nostri tempi invece, ciò che arrivava era una conquista“.
Cosa pensi ti dirà Vincenzino tra trent’anni? Immagino lo ritroverai, un po’ come è successo oggi…
“Mi sono chiesto come io vedrò Vincenzino tra trent’anni. E’ ciò che ho fatto ritrovando i miei ex compagni di avventura. Bambini che non vivevano in una società nella quale apparire era un fatto normale. Queste esperienze erano potentissime. Riguardo quel personaggio con affetto e tenerezza. E ho compreso che lo guarderò con occhi ancora diversi, frutto del vissuto che avrò raccolto”.
Perché oggi non possiamo perdere questo documentario?
“Perché il film “Io speriamo che me la cavo” ha attraversato 3-4 generazioni. Ha delle carte magiche. Questo documentario mette l’accento su un film indimenticabile della nostra storia“.
Una cosa è certa, siamo cresciuti insieme. Ve la siete e ce la siamo cavata.
“Quello sicuramente. Ce la stiamo cavando, il viaggio di una vita non finisce mai. E continueremo nonostante gli ostacoli”.
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