Anche le uscite costituiscono redditi di impresa e si sommano alle entrate. E’ questo il principio fissato dall’Agenzia delle entrate nel corso di un accertamento fiscale induttivo a carico di un onesto autotrasportatore di Valmontone, sig. Masella Silvio, che si è visto accertare con questo principio redditi di impresa esageratamente alti, cui si è giunti sommando i versamenti in conto corrente di un anno di attività (per circa € 250.000) alle uscite di conto corrente (di pari importo); infatti, l’Agenzia delle entrate, invece di detrarre i costi e calcolare un reddito pari a zero o in perdita, ha quantificato il reddito come sommatoria delle entrate e delle uscite, in complessivi € 500.000 circa e ha applicato su tale importo le aliquote per i vari tributi dovuti, tutti recuperati a tassazione.
Il suddetto imprenditore, che si sta difendendo in tribunale con l’avvocato Carlo Affinito, si è visto deferire anche in sede penale, per dichiarazione infedele Irpef e Iva, in quanto il reddito sottratto a tassazione, calcolato col principio testé richiamato, supera la soglia di punibilità di € 150.000. L’Agenzia delle entrate contesta al predetto imprenditore di aver dichiarato per l’anno 2010 meno di quanto risulti, sommando le entrate e le uscite di conto corrente. Infatti, l’Agenzia delle entrate pretende che siano giustificate dal contribuente sia le entrate, ossia i versamenti in conto corrente, sia le uscite, ossia i prelevamenti (in contanti, a mezzo assegni o bonifici) e, ovunque il contribuente non riesca a comprovare che l’uscita sia supportata da una fattura passiva o da idonea documentazione contabile (ricevuta di acquisto di marche da bollo, schede carburante ecc.), l’uscita viene considerata non un costo, ma un reddito, da assoggettare a recupero di tassazione. Così, il sig. Masella si è visto considerare come reddito una parcella pagata a un professionista con bonifico bancario, poiché non supportata da fattura passiva del professionista e pertanto sommata alle entrate dell’imprenditore; ugualmente, l’Agenzia delle entrate ha considerato entrate, quelle che erano spese, documentate da assegni consegnati agli operai per anticipi di retribuzione, per assegni per l’acquisto di carburante, per giroconti bancari per far fronte al pagamento di altri assegni.
Tale modus operandi, ancorché si scontri con il buon senso, si basa su un ragionamento presuntivo, consentito nell’accertamento induttivo, in cui al Fisco è permesso di sommare le spese non supportate da idonee documentazioni fiscali (le fatture) ai redditi; quindi, non solo il contribuente ha una spesa, ma tale spesa viene assoggettata a tributo quale entrata e il contribuente ci rimette due volte, la prima volta in quanto ha un’uscita e la seconda in quanto quella uscita è tassata come se fosse un’entrata.
In effetti, a carico dell’autotrasportatore di Valmontone, a fronte di versamenti in conto corrente per € 251.785,00 e di prelievi di € 246.312,12, non sono stati detratti i costi, ma le due somme sono state cumulate dal Fisco ed è stato calcolato un reddito rilevante ai fini Irpef di € 498.097,12 come sommatoria degli importi attivi e passivi ed è stata calcolata l’Irpef su tale importo di € 196.232,00; inoltre, sulle operazioni di versamento è stata calcolata un’Iva (ritenuta evasa), pari al 20% – nel 2010 l’aliquota Iva era del 20%, oggi del 22% – su € 251.785,00, per un totale di € 50.357,00; per i prelievi, è stata applicata un’ulteriore aliquota sanzionatoria del 20%, ossia la somma di € 49.262,00, in quanto si presume che le somme in uscita dal conto corrente siano utilizzate per “acquisti in nero”, ex art. 6. c. 8, del d.lgs 471/97 e quindi evasa l’iva che viene così recuperata a tassazione; inoltre, è stata ricalcolata l’Irap sulla somma di € 498.097; sono state calcolate le addizionali regionali e comunali sull’irpef e infine è stato calcolato un massimale dovuto ai fini Inps di € 92.147,00, oltre sanzioni e interessi da liquidarsi ad opera dell’INPS. A questo punto, all’imprenditore non resta che difendersi in tribunale, come sta facendo, per contestare questo modo di procedere del fisco.
La lotta all’evasione, infatti, in questo caso appare cieca e ingiusta, in quanto l’onesto imprenditore ha dovuto pagare i tributi non sul reddito, ma sulla sommatoria delle entrate e delle uscite. In via induttiva, la somma delle entrate e delle uscite di conto corrente è però consentita dalla presunzione tributaria, prevista per gli accertamenti induttivi, secondo cui concorrono a formare reddito imponibile quali ricavi di impresa, ai sensi degli artt. 32-33 del d.P.R. 600/73 in tema di accertamento dell’irpef ai sensi degli artt. 51-52 del d.P.R. 633/72 in tema di accertamento dell’Iva, le somme costituite dal cumulo di prelevamenti e versamenti bancari. Si considerano quale elementi indiziari di reddito i versamenti in conto corrente, ma anche i prelievi dal conto corrente, se non venga indicato il beneficiario o in assenza di documentazione fiscale passiva (sicché, la contabilizzazione di assegni tratti per pagamento di retribuzione di operai, di parcelle di professionisti, per il carburante per i trasporti, per giroconti, per spese di mantenimento della famiglia, sono considerati come prelevamenti e quindi come ricavi). Per scongiurare tale presunzione, l’imprenditore deve avere cura non solo di far constare l’uscita, ma deve indicare il beneficiario e lo stesso deve risultare dalle scritture contabili, ossia nelle fatture passive debitamente registrate; ovunque manchi la fattura del beneficiario, l’impresa si vede infatti considerare l’addebito in conto corrente come un ricavo, ancorché l’uscita rappresenti un costo per l’impresa, poiché sintomo di ricchezza reinvestita.
Da tale sistema, si salvano soltanto, per ora, i professionisti: l’art. 32 d.P.R. n. 600/73 escludeva che i prelievi costituissero compensi per i lavoratori autonomi (avvocati, medici, commercialisti e simili); esigenze di gettito fiscale, portarono il legislatore a modificare la norma, con l’art. 1, c. 402, lett. a), n. 1, della legge 311/2004, che reintrodusse la presunzione tributaria per cui i prelievi costituiscono reddito rilevante ai fini Irpef, ossia compensi; per le imprese, quindi, si parlava di ricavi; per i professionisti di compensi, sempre con riferimento ai prelievi; la Corte costituzionale ebbe però a dichiarare, con la sentenza n. 228/2014, la norma illegittima, ragion per cui per i professionisti, dopo tale sentenza, i prelievi non costituiscono più compensi, mentre per le imprese continuano a costituire reddito.
La ratio è che gli imprenditori possono usare i prelevamenti, non giustificati, per l’acquisto di merce “in nero”, così dimostrando una capacità di reddito e di evasione d’Iva; mentre per i professionisti non si applica tale presunzione, poiché non hanno necessità di acquisto di merce in nero. In sede penale, tale presunzione non si applica, né per gli imprenditori né per i professionisti; non sussiste più infatti la pregiudizialità tributaria, di cui alla legge 7 gennaio 1929, n. 4, con la conseguenza che le presunzioni tributarie (che valgono in sede di accertamento fiscale induttivo) non sono stringenti in sede penale (art. 20 d. lgs. 74/2000) valendo il regime del c.d. doppio binario, sicché le presunzioni tributarie si applicano nel sistema fiscale – amministrativo ma non in quello fiscale – penale e, se consentono di emettere cartelle di pagamento, non consentono da sole di far condannare il contribuente alla reclusione.
Tra l’altro, il Fisco consente oggi prelievi massimi di € 5000 mensili, presumendo tale importo quale somma massima destinabile al soddisfacimento dei bisogni di mantenimento di una famiglia, ancorché numerosa (d.l. 196/2013) e non si considerano i prelievi fino a € 1000 giornalieri; mentre i prelievi superiori a € 1000 giornalieri sono sempre reddito… Quindi, attenti alle spese, in quanto la presunzione tributaria è implacabile nel considerare i prelevamenti superiori ad € 1000,00 come redditi da recuperare a tassazione, anche se effettuati con assegni, bonifici o in contanti.
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