Un bagno di folla (e, per quanto fastidiosissima frase fatta, è quanto è accaduto), alla presentazione, domenica mattina, dell'ultimo libro di Massimo Roscia, alla Libreria Pallotta a Ponte Milvio. Un burlesque verbale, come sono da sempre le presentazioni dell'autore e gente piegata in due dalle risate. Ecco gli argomenti affrontati, dopo una cornice di riferimento quasi seria sull'utilizzo pigro, superficiale, passivo e non convenzionale che facciamo dell'italiano: Le raccomandazioni della mamma, amarcord (ai tempi miei…), meteo (non esistono più le mezze stagioni), giornalese, medichese, politichese (e qui è stato come 'sparare sulla croce rossa'), calcio, cinema, tv. E in chiusura anche l'oroscopo. Sipario: applausi. baci, abbracci, autografi, dediche, foto di rito, birette, titoli di coda.
Il Libro: Peste e Corna. Come disintossicarsi da luoghi comuni, frasi fatte e compagnia bella (Sperling & Kupfer, 2018).
In fin dei conti, ognuno di noi le usa. Perché sono immediate, perché le sentiamo in ogni dove, perché chiunque le capisce (o almeno finge bene), perché quando non abbiamo altre parole fungono da salvifico pronto soccorso linguistico. Sono le frasi fatte: espressioni idiomatiche, modi di dire, metafore logore e formule preconfezionate che hanno invaso ogni ambito semantico. Il burocratese ne abbonda, il giornalese ne abusa, in cucina sono uno degli ingredienti principali e nel meteo poi mietono più vittime dei violenti nubifragi. A volte servono a dare colore al discorso o a rompere il ghiaccio, ma più spesso appiattiscono la comunicazione in un prevedibile ammasso verbale trito e ritrito, con il risultato di parlare molto senza dire niente. In questo libro, Massimo Roscia, il non-linguista, non-lessicografo e non-grammatico più innamorato dell’italiano, si diverte a prendere in giro la nostra inveterata tendenza a usare formule stereotipate a ogni piè sospinto. Lo fa tramite la storia di Mario, un mite impiegato romano che, ovunque si volti, si imbatte nella quintessenza della banalità espressiva, fino ad avere il sospetto che a essere trita e ritrita non sia la lingua, ma le idee. Giocando con le parole come Flaiano e Campanile, Roscia torna a farci sorridere e riflettere sull’uso, talvolta bizzarro, che facciamo dell’italiano e ci invita a cercare (almeno) un modo migliore per dire sempre le stesse cose.
Massimo Roscia, nato a Roma nel 1970 circa, è un personaggio proteiforme e di difficile catalogazione. Critico enogastronomico, collaboratore del Gambero Rosso, già condirettore editoriale del periodico Il Turismo Culturale, pifferaio magico, mimo parlante, imbonitore, decente docente (insegna, tra l’altro, comunicazione, tecniche di scrittura, editing e marketing territoriale), esperto di cominicazione, incensurato, automunito, militassolto, collezionista di periodi ipotetici del terzo tipo e, non ultimo, scrittore. Autore di romanzi, racconti, saggi, guide turistiche, sceneggiature televisive e biglietti per biscotti della fortuna, vincitore di diversi premi letterari e partite a tressette, ha esordito con Uno strano morso ovvero sulla fagoterapia e altre ossessioni per il cibo (Edizioni della Meridiana, 2006). Dopo il fortunatissimo romanzo La strage dei congiuntivi (Exòrma, 2014), è tornato a occuparsi della lingua italiana con il saggio Di grammatica non si muore (Sperling & Kupfer, 2016). Non pago, ha scritto anche Peste e corna.
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