Viene dalla Paganella, Trentino, l’abete alto 25 metri allestito anche quest’anno a piazza San Pietro.
Il magnifico esemplare, 80 quintali di dura corteccia e foglie aghiformi, ha 113 anni e dal 10 dicembre, sarà acceso in Santa Sede per celebrare la Natività di Gesù.
L’usanza dell‘albero di Natale in piazza San Pietro è iniziata nel 1982 con papa Giovanni Paolo II, che quell’anno aveva ricevuto in dono un abete da uno zelante contadino polacco che lo ha portato fino a Roma.
Questo maestoso sempreverde può vivere, nelle giuste condizioni, anche seicento anni, infatti prende il suo nome proprio dalla parola Abies, utilizzato già dai latini, che potrebbe derivare dal greco longevo.
Tradizione pagana, quella di addobbare l’albero, proprio nel cuore della cristianità. La ricchezza delle tradizioni, del resto, è anche nel loro reciproco assorbimento.
Ma non è la sinergia culturale che ci interessa qui affrontare. Ci chiediamo infatti, quale valore e quale messaggio abbia, eradicare un patrimonio naturale come un antico abete per portarlo a Roma, in un clima inadatto, senza radici e così soggetto a parassiti e indebolimento.
“Negli ultimi anni quasi tutti gli abeti che sono stati addobbati a piazza San Pietro per Natale sono venuti da foreste certificate Pefc italiane ed europee (Belgio, Repubblica Ceca, Baviera, Bressanone, quest’anno dal Trentino), che forniscono garanzie per la loro gestione sostenibile e responsabile”.
A parlare di questa scelta, “un grande segnale ai fedeli di quale sia la strada migliore per celebrare le festività natalizie rispettando al tempo stesso il nostro patrimonio naturale”, è Antonio Brunori, segretario generale del Pefc Italia, un’associazione senza fini di lucro che costituisce il Programma di valutazione degli schemi di certificazione forestale. Gli abeti italiani disponibili per Natale “derivano per il 90% da coltivazioni specializzate che occupano oltre mille piccole aziende agricole tricolori. Il restante 10% è venduto senza radici” conclude.
Sempre in tema di quello che viene chiamato oggi “capitale naturale”, spostiamoci ora nelle competenze della Capitale. Su Spelacchio, l’albero in (triste) festa a piazza Venezia nel 2017, si è fatta tanta ironia. Ma c’era ben poco da ridere se pensiamo che il disboscamento è tra le cause delle inondazioni e del surriscaldamento globale. Oltre che della diminuzione di biodiversità e fattore di causa per le zoonosi.
Secondo il dipartimento Ambiente del Comune di Roma, quello di Spelacchio è il destino infausto di tutti gli alberi che fanno la loro ultima presenza scenica a piazza Venezia: “Da sempre gli alberi di Natale sono recisi e dopo le feste vanno buttati.
Nessuno è mai stato ripiantato. Trasportarli con le radici comporterebbe costi spropositati e l’utilizzo di un macchinario speciale che si trova in Germania”. Così riporta il Corriere della sera del 18 dicembre 2017.
Insomma, il problema è ancora una volta la nostra concezione dei Viventi e della relazione che abbiamo con la rete vivente e imprescindibile di cui facciamo parte.
Sarà che le piante le vediamo ferme e così le accomuniamo alla materia inorganica. E pensare che è vita “intelligente” (termine che ha tanti significati quante le volte che lo pronunciamo) anche quella della muffa, in particolare Phisarum polycephalum, un organismo unicellulare capace di trovare il percorso più breve per raggiungere il suo cibo preferito (l’avena) in un labirinto. Qualcuno di noi, assonnato a colazione non saprebbe fare di meglio per arrivare ai cornflakes.
Eppure nemmeno gli alberi di plastica sono una scelta “amica dell’ambiente” e quindi amica anche dell’umanità. E allora come coniugare sacralità e natura? Come far conciliare tradizione ed esigenze storiche in mutamento? Un vecchio dilemma filosofico non da poco, che non ci investe solo a dicembre.
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