Si sta discutendo a livello nazionale se nei borghi e paesi sino a 5000 abitanti si debba o meno avere una riapertura accelerata degli esercizi pubblici, e delle attività di lavoro, stante una casistica molto inferiore di contagio.
Ritengo che si debba seguire lo schema nazionale anche nella fase 2. Ma che si debba anche riflettere molto e bene per la fase 3, quella dell’uscita dall’emergenza, anche se conviveremo con il virus molto a lungo.
La riflessione va posta sulle aree interne e montane, sul ruolo strategico che debbono giocare d’ora in avanti, per essere ripopolate e rilanciate. Per attuare quel controesodo che hanno più volte teorizzato insieme Anci Lazio e Uncem Lazio.
Se non si apprende la lezione che il modello di sviluppo e di insediamento demografico degli ultimi vent’anni è profondamente sbagliato, non si è imparato niente del dramma che stiamo vivendo.
I focolai d’infezione si sono sviluppati e propagati nelle aree più congestionate del Paese; nelle periferie e nei centri metropolitani più degradati e inquinati. Nelle concentrazioni ospedaliere e nelle residenze per anziani: cioè secondo un modello di vita urbano. Un modello contrassegnato dagli stessi orari di arrivo e partenza negli stessi luoghi, di concentrazione di persone e macchine, di attività collettive e ritmi frenetici, le famose ore di punta.
Ci si è sgolati ad indicare nelle aree interne e montane una alternativa di vita e di lavoro salubre. Uno stile a misura d’uomo, legato a indentità forti, a tradizioni ed attitudini che sono il contenuto del made in Italy, ad aria buona ed enogastronomia tipica.
Borghi e Paesi chiedevano banda larga, perché il lavoro intelligente oggi si è riscoperto, ma esiste da anni l’intuizione di allocare nei centri storici le sedi direzionali di imprese e strutture amministrative. Essi chiedevano metanizzazione, perché oltre 1100 Comuni ne sono privi e 1200 non hanno segnale per cellulari; investimenti per la tutela del territorio dal dissesto idrogeologico, dagli incendi, dalla neve, dalle frane, dalla viabilità fatiscente; tutela che si è sempre dovuto faticare per averla, e poi insufficiente ed occasionale.
Se non si inverte questa politica, temo che il sacrificio che stiamo facendo sarà inutile e le aree interne e montane moriranno. Sì moriranno, perché quei pochi esercizi commerciali e artigianali non riapriranno. Perché senza investimenti per il lavoro i giovani rimasti partiranno. E perché ogni vecchio che se ne andrà non potrà trasmettere a nessuno la sua cultura e il suo sapere, la sua attitudine a una vita semplice e serena.
La prima risposta che ci si attende è dalle istituzioni proprio oggi che arrivano risorse fresche: segnali chiari, nuovi, di indirizzo strategico e di investimenti adeguati. È mancata per troppo tempo quell’attenzione necessaria per invertire quei fenomeni di invecchiamento e impoverimento che poi determinano lo spopolamento di migliaia di Comuni.
Per fare buone leggi ci vuole lo stesso tempo e fatica per farne cattive o pessime. Ora e non in altra occasione la lezione deve essere appresa ed è la politica che deve porsi il problema: in un paesino montano che conta 200 abitanti, ma che presidia decine di Kmq di territorio, i voti da conquistare sono un ennesimo di una periferia metropolitana irrisori per la propria carriera. Ma decisivi e vitali per la missione civica del proprio mandato.
Francesco Chiucchiurlotto, Coordinatore della Consulta Piccoli Comuni del Lazio
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