Cronaca

Pizza, birra e droga a Rebibbia: in 41 rischiano il processo tra detenuti, agenti e un medico

Un’inchiesta che sembra uscita da un film, ma che invece fotografa una cruda realtà. Nel carcere romano di Rebibbia, la corruzione e l‘introduzione illecita di beni hanno coinvolto diversi soggetti, tra cui detenuti, membri delle forze dell’ordine e persino un medico. L’indagine, coordinata dal pm della Direzione Distrettuale Antimafia (Dda) Carlo Villani, ha portato alla luce un vero e proprio sistema di scambio all’interno del penitenziario, che prevedeva la consegna di droga, cellulari, pizze e birre ai detenuti. Ora, 41 persone rischiano di finire a processo.

La rete illegale all’interno del carcere

Secondo quanto emerge dall’atto di conclusioni delle indagini, i fatti contestati risalgono al periodo precedente e durante il 2020. Gli inquirenti hanno individuato un sistema criminale organizzato all’interno di Rebibbia, il cui scopo principale era l’introduzione di sostanze stupefacenti e oggetti proibiti. Tuttavia, ciò che ha destato più scalpore è l’assoluta disinvoltura con cui beni comuni, come pizza e birra, venivano fatti entrare nel carcere, quasi banalizzando le regole penitenziarie e mettendo in luce la profonda corruzione che affliggeva l’istituto.

Il meccanismo funzionava attraverso la corruzione di alcuni agenti della polizia penitenziaria, che ricevevano somme di denaro per consegnare ai detenuti pacchi contenenti droga o altri oggetti, come i cellulari. La droga veniva spesso indicata con termini in codice come “sigarette” o “regali”, per evitare sospetti in caso di conversazioni intercettate.

Uno degli episodi più emblematici dell’intera indagine risale all’ottobre del 2020, quando un detenuto riuscì a ottenere una pizza e una birra per un costo complessivo di 30 euro. Il tutto fu possibile grazie a una rete di complicità all’interno del carcere, che coinvolgeva non solo i detenuti, ma anche alcune figure chiave tra gli agenti della penitenziaria.

L’Accusa di associazione a delinquere

Il quadro emerso dall’inchiesta non si limita a semplici episodi di corruzione. Gli indagati, infatti, sono accusati di far parte di un’associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droga all’interno del carcere. Questo implica che vi fosse un’organizzazione strutturata, con compiti ben precisi e una rete di contatti in grado di far entrare beni illeciti nel penitenziario.

L‘introduzione dei cellulari, ad esempio, permetteva ai detenuti di mantenere contatti con l’esterno e di continuare a gestire traffici illeciti. L’uso dei telefoni all’interno di un carcere rappresenta una grave violazione delle norme penitenziarie, poiché offre ai custodi la possibilità di comunicare senza controllo con l’esterno, compromettendo la sicurezza dell’intera struttura.

In alcuni casi, ai contenitori venivano consegnati dei “pizzini” piccoli fogli di carta usati per scambiare messaggi — e persino una pennetta USB, segno che le comunicazioni erano tutt’altro che occasionali e che l’organizzazione criminale aveva a disposizione mezzi tecnologici per gestire le sue operazioni.

La corruzione degli agenti e il ruolo del medico

Tra gli indagati spiccano anche alcuni appartenenti alle forze dell’ordine. Ad uno degli agenti della polizia penitenziaria viene contestata la corruzione per aver accettato la somma di 300 euro in cambio della consegna di un pacco di droga all’interno del carcere. Episodi come questi gettano ombre sul sistema penitenziario italiano, evidenziando come la complicità interna rende difficile mantenere l’ordine e la legalità all’interno delle strutture di detenzione.

Non meno grave è il ruolo di un medico di guardia, al quale viene contestata l’omessa denuncia. Il medico, pur essendo a conoscenza del fatto che un detenuto faceva uso di un cellulare, non ha segnalato l’episodio all’Autorità giudiziaria, violando il proprio dovere professionale e contribuendo a mantenere il silenzio su ciò che accadeva nel carcere.

Conclusione delle indagini: rischio processo per 41 indagati

L’indagine, condotta dagli agenti della polizia penitenziaria e dai poliziotti del commissariato di Tivoli, ha portato alla formulazione di accuse pesanti. I reati contestati includono corruzione, associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droga e omissione di atti d’ufficio. L’atto di conclusioni delle indagini segna un passo decisivo verso un possibile processo per i 41 indagati, che potrebbero presto trovarsi a dover rispondere di fronte alla giustizia delle loro azioni.

Questo caso evidenzia come il sistema carcerario italiano sia talvolta vulnerabile a episodi di corruzione e illegalità, mettendo a rischio non solo l’integrità delle istituzioni penitenziarie, ma anche la sicurezza pubblica. È chiaro che sarà necessario un intervento deciso per ripristinare la legalità all’interno del carcere di Rebibbia e per prevenire il ripetersi di episodi simili in futuro.

In attesa delle prossime fasi processuali, l’inchiesta rappresenta un monitor su come le carceri, anziché fungere da luogo di rieducazione e punizione, possono diventare terreno fertile per attività criminali, soprattutto quando la corruzione dilaga tra le stesse forze che dovrebbero garantire il rispetto delle regole.

Redazione

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