Nel borgo della Sabina ormai si va per rendere omaggio al “nostro amico” Lucio. Per quelle canzoni che ormai sono dentro di noi, fanno parte della nostra esistenza e della nostra identità. Ci accompagnano, generazione dopo generazione, indelebili come fossero nel nostro Dna.
Ogni città, cittadina o borgo del mondo, per quanto grande o piccolo, ha il santo protettore, la statua del suo cittadino emerito, le vie a lui intestate e poi eventi e manifestazioni in suo onore nel giorno a lui dedicato, di solito la data di nascita, per ogni anno che viene sulla Terra. Poggio Bustone, in provincia di Rieti, ha la statua di Lucio Battisti che qui nacque il 5 marzo del 1943, curiosamente il giorno dopo quella di Lucio Dalla a Bologna.
Lucio era secondo figlio di Alfiero (impiegato al Dazio) e Dea Battisti (casalinga). Il loro primogenito, anch’egli di nome Lucio, morì nel 1942 a soli 2 anni di etá. L’atto di nascita del cantautore non esiste perché, durante la seconda guerra mondiale, un bombardamento colpí il palazzo comunale, distruggendo anche i registri dello stato civile, ma venne ricostruito nel 1976. La sorella Albarita nacque nel 1946 e morí nel 2003, a causa di un tumore.
Lucio Battisti è stato, ma lo sapete benissimo, uno dei massimi autori, cantautori e interpreti nella storia della musica leggera italiana. Battisti ci ha lasciati il 9 settembre del 1998 ma ancora oggi ci sono pellegrinaggi alla sua statua di bronzo che lo ritrae con in mano la chitarra, nei Giardini di marzo del paesino della Sabina. Pensare che prima di Lucio, Poggio Bustone era noto, a pochi, per essere il borgo scelto da San Francesco d’Assisi per la sua solitaria ascesi.
Un luogo di meditazione, silenzio, pace. Mentre Lucio l’ha trasformato nel paese in cui ci si ricorda di lui e delle sue canzoni. Testi che una intera generazione conosce a memoria e che ha trasferito alle generazioni che seguono, così che se si accenna una canzone di Battisti durante un concerto, state sicuri che il pubblico ne conosce parole e melodia. Questa è la grandezza della musica di Lucio Battisti, qualcosa che dura nel tempo, lo prevarica, si mantiene nella memoria emotiva di generazioni di ragazzi e di uomini e donne, intatta, grazie a lui e a Mogol, alias Giulio Rapetti, che scrisse testi poetici e mirabili, in una rara empatia artistica, forse irripetibile, che solo certe arti e certi periodi storici possono consentire.
Se cerchi notizie su Poggio Bustone troverai solo che è un luogo incantato, dal quale si gode di un panorama che domina tutta la valle del reatino. Sorge sul fianco del Monte Rosato, un colle che si erge sul bordo nord-orientale della Piana Reatina, detta anche Valle Santa. Baciato dal sole (come in ogni descrizione turistica, anche se purtroppo non sempre è sempre così) che sorge alle spalle orientali del Terminillo per poi tramontare oltre il Monte Tancia.
Il Terminillo mi evoca gite scolastiche degli anni pre battisti, con la scusa di andare a sciare, per poter finalmente stare abbracciati con la compagna di classe più carina. Ma da Battisti in poi a quelle gite non si cantava più “Quel mazzolin di fiori” o “Legata a un granello di sabbia” ma “Acqua azzurra, acqua chiara, dalle mani posso finalmente bere…” oppure “Balla Linda”, “Un’avventura”, “Mi ritorni in mente” e via via tutto il grande repertorio del duo Mogol-Battisti. Ancora oggi a 26 anni dalla sua dipartita, frotte di appassionati, fan, curiosi vanno a Poggio Bustone solo per vedere dov’è nato quel “gran genio del mio amico” Lucio.
Per tutti lui è un amico, qualcuno con il quale s’è condiviso “emozioni”, “chissà chissà chi sei, chissà che sarai, chissà che sarà di noi, lo scopriremo solo vivendo”, “vola sulle accuse della gente a tutti i suoi retaggi indifferente”, “di che colore sono gli occhi tuoi?”, “il carretto passava e quell’uomo gridava gelati”, “conosci me, la mia lealtà, tu sai che oggi morirei per onestà”, “in un mondo che non ci vuole più il mio canto libero sei tu”…”Sono al buio e penso a te, chiudo gli occhi e penso a te”, “eppur mi son scordato di te, come ho fatto non so”. “Come può uno scoglio arginare il mare, anche se non voglio torno già a volare…”. “A te che sei nel presente, a te la mia mente, e come uccelli leggeri, fuggon tutti i miei pensieri, per lasciar solo posto al tuo viso…”
Con quelle melodie nel cuore i fan si avvicinano alla statua di bronzo, lasciano dei fiori, si muovono smarriti nella piazzetta. La statua è un omaggio all’artista ma sarebbe anche la dimostrazione dura, inequivocabile, che Lucio ci ha lasciati e invece lo sentiamo più vivo che mai perché i pensieri che ci ha trasmesso, ormai fanno parte di noi, sono noi. Quando ci si trova uniti, tra sconosciuti, a cantare quelle canzoni, ci sentiamo un popolo che si riconosce in quei testi, in quei pensieri, che tutti abbiamo condiviso e guardate che la stranezza è che non succede solo tra coetanei ma tra gente di differenti età.
In fondo quella gita a Poggio Bustone deve solo riempire una casella di curiosità, la casa dov’è nato, accanto a Piazza 5 marzo, i paesaggi e le cose che ha visto da bambino, le vie in cui ha camminato. Ora abbiamo riempito il vuoto della casella.
Oltre a Battisti e a San Francesco, spero di non essere accusato di blasfemia per l’accostamento e ancora più per il prossimo nome, ci sono altri personaggi importanti a cui il paese di appena 2000 abitanti ha dato i natali. Qui è nato per esempio Attilio Piccioni, storico esponente della Democrazia Cristiana degli anni ’50, padre di Piero, compositore coinvolto nel caso Montesi e di Leone, critico letterario e dirigente di una gloriosa Rai del passato.
Il borgo venne fondato nel 1200 quando si edificarono il convento e la chiesa, col chiostro, poi ampliato nei secoli successivi e completato nel 1600. Il Santuario ospita affreschi che ritraggono la Madonna delle Grazie col bambino e due angeli ai lati in adorazione, poi le vetrate colorate e il crocefisso in legno. Non solo storia e nomi celebri, a Poggio Bustone è celebre anche la porchetta locale. Altro accostamento azzardato ma ci sta.
La leggenda vuole che sia stato Moretto, un macellaio locale, a scoprire il segreto della cottura della carne di maiale aromatizzata con spezie, e dopo aver trovato la ricetta perfetta, l’abbia passata ai suoi concittadini. Non è nota la data cui si riferisce la leggenda, ma c’è un dato preciso riguardo la storia dello street-food laziale per antonomasia: nel 1900, la porchetta di Poggio Bustone, non quella di Ariccia, venne menzionata nella Gazzetta Ufficiale quale prodotto tipico sabino da presentare all’Esposizione Universale di Parigi. La sagra si svolge da circa 70 anni ogni prima domenica di ottobre.
Forse la grandezza di quei brani è tutta nell’incontro di due geni come Mogol e Battisti. È accaduto qualcosa di difficilmente ripetibile, ma che in quegli anni poteva accadere. Erano anche gli anni in cui altri geni si sono incontrati come Lennon e McCartney, Keith Richard e Mick Jagger, come i Led Zeppelin: Jimmy Page, Robert Plant e John Bohnam con John Paul Johns, o come Eric Clapton, Jack Bruce e Ginger Baker (The Cream), nel cinema i Blues Brothers o Federico Fellini con Marcello Mastroianni e Sophia Loren, o l’abbinamento Sergio Leone ed Ennio Morricone che al cinema ha dato capolavori eterni.
Quante sono state le coppie o gli abbinamenti fortunati nella danza, nell’arte, nell’opera, nella regia, nella comicità, nello sport, diciamo in una parola nella creatività. Quella collaborazione tra Mogol e Lucio Battisti ha spazzato via la polvere che si era già addensata sulla canzonetta italiana, per dirla con Edoardo Bennato, modificando e innovando la forma stessa della composizione.
Non c’è più niente di statico o ripetitivo nelle loro canzoni, sono davvero un canto libero dove strofa, ritornello, strofa, inciso e finale non hanno più senso.
I testi di Mogol poi hanno toccato argomenti che prima nessuno osava sfiorare, usando parole comuni che non entravano nei testi musicali, facendo emergere sentimenti, sensazioni che ognuno riconosceva ma che le canzoni non sempre riuscivano a esaltare. La quotidianità è entrata nella musica leggera, versi che sono dei film, passaggi che sono dei video a occhi chiusi.
Non lo fece solo Mogol, anche altri cantautori l’hanno fatto come Tenco, Paoli, Venditti e De Gregori o De André e molto dopo Pino Daniele, ma mai con la prorompente forza di quei brani di Mogol. È come parlare all’anima più che alla mente. Voi vedete che distanza ci sia tra allora e oggi. Tra le produzioni di allora e oggi. Tra gli artisti di allora e i pietosi saltimbanchi rap di oggi. Fra 20-30 anni pensate che qualcuno si ricorderà di Rolls Royce di Achille Lauro?
Non voglio ripercorrere le tappe della carriera di Lucio Battisti anche perché libri e trasmissioni e documentari ne hanno parlato allo sfinimento e poi molti di voi ne saranno stati anche diretti testimoni. Ma è curioso come quell’incontro sia nato non per caso ma quasi per l’insistenza di chi stava loro intorno. Il 14 febbraio del 1965 Battisti riesce ad avere un appuntamento con Franco Crepax e durante il provino viene notato da Cristine Leroux una discografica di origine francese arrivata a Milano negli anni ’60, contitolare delle edizioni El & Chris.
Cacciatrice di talenti per la casa discografica Ricordi, fu lei una delle prime a credere nel talento di Battisti, e fu lei a procurargli il fatale appuntamento col paroliere Gulio Rapetti. Nel primo incontro con Battisti, Mogol ha raccontato di non essere rimasto particolarmente impressionato dalle canzoni che quel ragazzo gli aveva proposto, ma di aver comunque deciso di collaborare con lui per la sua umiltá nell’ammettere i propri limiti e la voglia di migliorarsi.
Nel 1966, fu lo stesso Mogol a insistere con un Battisti scettico, circa le proprie doti vocali, perché cantasse in prima persona le sue canzoni, anziché limitarsi ad affidarle ad altri. Mogol dovette superare molte resistenze della Casa discografica ma alla fine l’ebbe vinta.
Battisti esordí come solista con il 45 giri che includeva “Per una lira” e “Dolce di giorno”, con modesti risultati di vendite, tanto che oggi il disco è molto ricercato dai collezionisti. Le due canzoni vennero poi portate al successo rispettivamente dai Ribelli capitanati da Demetrio Stratos e dai Dik Dik. Nel circuito degli addetti ai lavori “Per una lira” si fece notare come brano fortemente innovativo nel testo e nella scrittura musicale.
Il segno indelebile che hanno lasciato i brani della coppia Mogol Battisti non è più stato raggiunto da Lucio quando ruppe il sodalizio con il paroliere, per cercare altre vie e altre sperimentazioni. Si ruppe anche quella strana empatia che legò le loro creazioni agli anni di piombo e al periodo di intensa creatività delle generazioni di quel periodo.
Le realizzazioni con la moglie Velezia e con il poeta e paroliere Paolo Panella non sortirono gli stessi risultati. I testi erano criptici, involuti, mai descrittivi, avevano perso lo smalto e la semplicità apparente di quelli di Mogol. Lucio si ritirò dalle scene, come aveva fatto già Mina.
Iniziò a ridurre le sue apparizioni nella prima metà degli anni ’70 e poi definitivamente all’inizio degli ‘80, sempre per quella strana timidezza che manifestava nel rapporto col pubblico e con la televisione. Come per le leggi di contrappasso, più sei assente dai palcoscenici e più sei presente nei cuori di chi ti ama. Così Lucio, andandosene definitivamente nel 1998, ci aveva già abituati alla sua non presenza fisica e alla sua immortale presenza emozionale.
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