Se si lasciasse andare Erich Priebke col suo bagaglio insanguinato di fantasmi sarebbe la cosa migliore e più giusta. Questo frammento di un secolo impazzito tornerebbe alla polvere secondo le leggi di natura spegnendo ogni sete postuma di vendetta. Ma Priebke ha immaginato per sé un altro destino post-mortem, lasciando un testamento politico in cui giustifica la sua fedeltà agli ideali del nazionalsocialismo e nega l’esistenza delle camere a gas. Non l’estrema e ultima autodifesa di un “vinto” ma un atto d’accusa dettagliato contro le “menzogne” storiche che sarebbero state orchestrate dai vincitori per annientare definitivamente il popolo tedesco. Non un addio, ma l’atto prevaricatore di chi – nonostante tutto e a dispetto di tutto – vuole essere “simbolo”.
Bene, il mio personale parere è che questo è del tutto ingiustificabile e merita una vigilanza particolare all’interno di un ambiente che, ormai privo di riferimenti politici stabili visto che un partito di destra non c’è, è pericolosamente propenso a lasciarsi andare a subdole e distorte seduzioni. Perché Priebke negli anni Novanta era solo il vecchio milite contro il quale, per un superiore senso di pietà, era opportuno non infierire (così si espressero Vittorio Feltri e Massimo Fini) mentre oggi, nel 2013, è diventato il nazista non pentito, il soldato integerrimo, il vinto perseguitato cui tributare onori.
Ora io esorto chiunque a destra abbia un minimo di coscienza a respingere con fermezza la tentazione di considerare Priebke un simbolo o un esempio, trattandosi solo di un oscuro gregario che ha eseguito un ordine disumano – di cui certo non era responsabile – senza alcun rimorso di coscienza. Solo il fatto che sia sopravvissuto così a lungo l'ha reso ingombrante testimone di un secolo ma questo stride di sicuro con l'effettivo ruolo storico svolto da Priebke.
E dico di più: rimpiango il modo – sia pur troppo tiepido – con cui Gianfranco Fini ha cercato di estirpare dalla destra la tentazione dell’antisemitismo. Avrebbe dovuto essere molto più “severo”, molto più rigoroso e molto più attento. E mi dispiace di essermi, all’epoca, anche io rammaricata per le famose parole dette da Fini sul “male assoluto”. Non saprei infatti come altro definire un’ideologia che fa di un popolo il proprio nemico. Che cos’è il male infatti se non la negazione dell’imperativo morale formulato proprio da un tedesco, Immanuel Kant, e che così recita: “Agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua volontà a legge universale”? Poi, certo, ci sono state le semplificazioni sul fascismo italiano. Ma è un’altra storia.
Qui si parla di un’altra cosa: dell’ebreo come nemico, anzi come Nemico con la maiuscola. Un principio intollerabile, un non principio, un’idea da condannare senza se e senza ma e che non può passare in nome del “diritto di critica” che Priebke invoca nel suo testamento. Priebke ammette la persecuzione degli ebrei ma non lo sterminio con le camere a gas. Li tenevano nei campi, afferma, con grandi cucine e persino bordelli “per le loro esigenze naturali” (come se parlasse di gabinetti, incredibile…). Ecco: i campi non avrebbero dovuto proprio essere concepiti, i campi furono e restano un’aberrazione, l’idea di elevare un popolo a nemico principale è odiosa e da combattere.
E una nazione come la Germania che ha dato i natali a veri e propri geni dello spirito europeo non può essere appiattita a generatrice di un’aberrazione (la colpevolizzazione collettiva del popolo tedesco è stata di sicuro una sopraffazione dei vincitori ma non sarebbe stata possibile senza le degenrazioni del nazionalsocialismo). Il testamento di Priebke perpetua solo un mare di equivoci, semina errori di prospettiva, diffonde la mala pianta dell’odio razziale. E stupisce, anche, l’atteggiamento acritico con cui Priebke torna a giustificare il suo passato, senza rendersi conto che è appunto trascorso un secolo, senza percepire che proprio lui, in quanto sopravvissuto, in quanto testimone di una tragedia, avrebbe dovuto dire tutt’altro e non ancora una volta pensare di trovarsi nelle condizioni dei giovani tedeschi che si arruolavano in massa nella prima guerra mondiale, lasciandosi andare all’ “ebbra temperie di rose e di sangue” (cito da Tempeste d’acciaio di E.Junger). L’assurda museificazione della weltanshauung servita in gioventù entra in quel testamento nella categoria del macabro.
Che cos’è questo alone eroico che si vuole vedere attorno a Priebke? A cosa somiglia la sua disgraziata esistenza? Viene in mente l’esempio del soldato di Pompei, abusatissimo nell’ambiente della destra, che nonostante si avvicini il fiume di lava aspetta immobile che gli diano l’ordine di muoversi. Bè è un esempio sbagliato e da respingere. Il soldato doveva muoversi, lasciare il suo posto e vedere di salvare se stesso e altre vite anziché irrigidirsi nell’attesa dell’ordine. Perché prima di essere un soldato era un essere umano. E Priebke è stato, al contrario, prima soldato e poi essere umano. E ciò non lo assolve, eticamente. E non lo assolve neanche l’infame strage di via Rasella (che infame resta, a dispetto delle sentenze che l’hanno giudicata “atto di guerra”).
E non lo assolve neanche la tendenza giacobina a stabilire per legge quale opinione debba essere o no reato (la ricerca storica è essenziale alla memoria, non se ne può amputare una parte bollandola come negazionismo). Né assolve Priebke la tesi a mio avviso assurda dell’unicità specifica dell’Olocausto, che relega a massacri di serie B altri sterminii a danno di altri popoli. Tutto questo è fastidioso contorno rispetto all’essenza: Priebke è rimasto fino all’ultimo un nazista e nulla potrà da domani essere portato a giustificazione di una destra che non mette in chiaro da subito e senza esitazioni che un personaggio del genere non può essere né un simbolo né un eroe. Lo si lasci tornare alla polvere.
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