Ogni giorno che passa, il processo Palamara regala nuove sorprese e si arricchisce di nuovi dettagli. Gli ultimi riguardano i retroscena sul principale capo d’imputazione a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. E, legato a questi, l’immediato slittamento dell’udienza davanti alla Commissione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura. Che già qualcuno legge come un disperato tentativo delle toghe di salvarsi in corner, affibbiando tutta la responsabilità dello scandalo Magistratopoli al principale indiziato.
La prima udienza del procedimento disciplinare a carico di Luca Palamara è durata pochi minuti, il tempo di rinviare tutto al 15 settembre. Il difensore dell’ex Pm, Stefano Guizzi, non poteva infatti presentarsi a Palazzo dei Marescialli perché trattenuto in tribunale da un altro processo.
Sarà dunque agli sgoccioli dell’estate che il Csm dovrà deliberare anzitutto sulle istanze di ricusazione presentate da Palamara e da Cosimo Ferri. Parlamentare di Iv e toga in aspettativa, che aveva annunciato la ricusazione dell’intero Csm, anche se alla fine si è accontentato di due sole istanze.
Ferri era presente all’ormai celeberrima cena del 9 maggio 2019 all’hotel Champagne, in cui si discusse della nomina del nuovo Procuratore di Roma. Che gli indagati, inclusi l’onorevole dem Luca Lotti e altri cinque membri del Csm, cercavano di eterodirigere, secondo i magistrati di Perugia titolari del caso. In più, per non farsi mancare niente, Palamara avrebbe anche tentato di screditare l’allora Procuratore capitolino Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. Alla cui carica aspirava proprio l’ex leader dell’Associazione Nazionale Magistrati.
C’è però anche un altro banchetto sotto la lente d’ingrandimento degli inquirenti. Un pranzo avvenuto «alla fine di febbraio 2019», sempre a Roma, al ristorante Il Baccanale. Al quale parteciparono, oltre al solito Palamara, Stefano Fava, giudice civile di Latina, Sebastiano Ardita, consigliere dell’organo di autogoverno della magistratura, e il Pm Erminio Amelio. Ma, soprattutto, l’idolo dei manettari Piercamillo Davigo, famoso per aver dichiarato che «non esistono innocenti, ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti».
Proprio questa circostanza era alla base della richiesta, da parte dell’ex leader della corrente Unicost, che Davigo, in quanto membro della sezione disciplinare, si astenesse. Nel momento in cui il togato si è rifiutato, sostenendo che quel colloquio non avesse alcuna rilevanza nella contestazione in essere, Palamara lo ha ricusato.
La motivazione della mossa dell’ex Pm romano sta nell’aver citato lo stesso Davigo come teste, proprio perché presente al tavolo sopracitato. È pur vero che il consigliere del Csm è in buona compagnia, visto che Palamara ha presentato un elenco monstre di 133 testimoni. Che, per inciso, Palazzo dei Marescialli pare voglia ridurre a una decina, possibilmente di secondo piano rispetto ai nomi altisonanti che campeggiano nella lista.
Davigo, però, si troverebbe nella condizione di far parte, contemporaneamente, dell’accusa, del collegio giudicante e dei testi «a discarico dell’incolpato». E il fatto che ritenga di poter gestire questa pletora di ruoli fa pensare che si consideri anche uno e trino.
Nel pranzo “incriminato”, Davigo sarebbe stato per lo più in silenzio, mentre i veri protagonisti sarebbero stati Fava e Ardita. Al centro della conversazione, una diatriba tra lo stesso Fava, allora sostituto Procuratore nella Capitale, e il duo Pignatone-Ielo, sfociata poi in un esposto al Csm.
Secondo Fava, in uno dei casi che lui seguiva come Pm il vertice di piazzale Clodio si sarebbe dovuto astenere per un possibile conflitto d’interessi. Tuttavia, quando il Pm calabrese presentò una richiesta di custodia cautelare, il Procuratore di Roma gli negò il visto. I contrasti si sarebbero quindi ulteriormente inaspriti, fino alla revoca del fascicolo all’ex sostituto Procuratore.
Di queste divergenze si parlò al Baccanale e, stando al racconto di Fava, Ardita e Davigo giudicarono la vicenda «di indubbia rilevanza e che meritava accertamenti approfonditi». Come poi avvenne nel momento in cui Fava presentò effettivamente l’esposto al Consiglio Superiore della Magistratura, il successivo 27 marzo, «per tutelarmi».
Solo che l’ex presidente dell’Anm se ne sarebbe avvalso per denigrare Pignatone. Tanto è vero che l’esposto è diventato oggetto di incolpazione proprio nel processo Palamara.
C’è chi, come il cronista di giudiziaria Frank Cimini, pensa che il rinvio del processo Palamara indichi la volontà «di affossare il processo stesso». La magistratura dovrebbe infatti processare se stessa, ma potrebbe preferire di gran lunga salvaguardare la propria immagine.
«Vogliono trovare il modo per non espellere Palamara in modo che dica meno di quello che vuole dire», è la convinzione del giornalista. Secondo cui le toghe non possono permettersi che esca «altra spazzatura come sarebbe inevitabile».
L’alternativa sarebbe radiare il prima possibile l’ex Pm di Roma, salvando – e probabilmente ricompattando – il sistema delle correnti. Bisognerebbe però fare preventivamente i conti con la scarsa propensione (eufemismo) dell’ex membro del Csm a fare da capro, o meglio da tonno espiatorio.
Chi ne esce sicuramente con le ossa rotte è il diritto. Ma in fondo siamo abituati ad avere, per molti versi, uno “Stato al rovescio”: e di qui a uno “stato di rovescio” è un attimo.
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