Quelli che con la destra e la sinistra…
Quelli che con la destra (e la sinistra) l’hanno fatta finita da tempo…
Diceva Mao Zedong che se grande è la confusione sotto il cielo la situazione va ritenuta eccellente. Si tratta di una massima che, per stare all’attualità italiana, vale anche per la velocissima semplificazione del quadro politico-parlamentare italiano che è in atto attraverso tutta una serie di fenomeni. Non solo per l’irruzione caotica e confusa del M5S, per l’implosione del centrosinistra e del Pd, per l’estinzione delle forze parlamentari e politiche di ormai lontana ascendenza missina o, infine, per l’evidenza ormai di dominio pubblico del soggetto politico berlusconiano quale semplice e disincantato aggregato di interessi lobbistici.
E cominciamo da uno di questi fenomeni, quello che ci coinvolge di più: l’irrilevanza della destra, ormai prossima alla sua estinzione istituzionale e parlamentare. Da questo punto di vista, dobbiamo dire che se un contenitore, confuso e ambiguo, come quello che convenzionalmente veniva definito con il termine “destra” esce di scena, maoisticamente non può scaturirne che una situazione “eccellente” da punto di vista della chiarificazione e della fine degli equivoci politici. Sotto quel termine (e quello “spazio”, inteso non solo nell’accezione concettuale) si coagulavano infatti pulsioni, tensioni, aspirazioni e progetti non sempre coincidenti, definendo una polarità più nel senso del “vediamo quanti ne mettiamo insieme” che in quello di aggregare energie coerenti e consapevoli in direzione di una precisa e definita funzione politica.
Sia ben chiaro: la stessa cosa vale per il contenitore, a sua volta contraddittorio e ambivalente, che per tanto tempo è stato definito “sinistra”. Proprio per questo c’è solo da essere contenti e soddisfatti della fine delle aggregazioni che nascevano, sotto l’urto tardivo della guerra fredda, più per mettere insieme persone contro qualcosa che per quello che queste condividevano realmente tra di loro. Che poi l’etichetta di “destra”, soprattutto dopo il 1993, sia servita soprattutto per garantire posti elettivi e istituzionali e tenere compattate (in una logica partitocratica) persone, ambienti e gruppi, è tutta un’altra storia. Ci appare quindi incomprensibile la reazione – che traspare da alcuni loro articoli – di persone che pure conosciamo bene come lo storico Alessandro Campi e il giornalista Alessandro Giuli, i quali nell’analizzare la crisi finale della cosiddetta destra italiana sembrerebbero lasciar trasparire una certa qual “nostalgia” per la destra che avrebbe potuto essere.
Di più: quasi un inspiegabile rammarico per la destra che non c’è più ed eclissatasi solo per una presunta insipienza della sua classe dirigente… Eppure, noi pensavamo, sinceramente, che i due, in realtà, avendo mosso la loro formazione in quel contesto – confuso ma decisamente creativo – che tra gli anni Ottanta e i primi Novanta si era mosso all’insegna di una sintesi nuova e di una contaminazione tra posizioni, non avrebbero dovuto provare nessuna nostalgia per fantomatiche destre, conservatrici o tradizionaliste esse siano. Era quello delle “nuove sintesi”, del resto, il contesto al quale s’è avvicinato e formato chi scrive, quel clima che – come ha scritto il politologo Pasquale Serra – aveva portato alcuni da destra a superare il paradigma neofascista, al fine di “entrare in relazione con i nuovi fermenti della società civile, ormai non più racchiudibili dentro l’universo di Marx o di Freud”.
È quanto attestava anche il politologo Marco Revelli, secondo il quale tra la metà dei Settanta e quella degli Ottanta si espresse un’area di frontiera sensibile a una lettura innovativa degli autori del pensiero della crisi (Nietzsche, Heidegger, Ernst Jünger, Carl Schmitt ma anche Ezra Pound, Céline, Henry Miller…) e a una, contemporanea, rilettura libertaria del pensiero spiritualista (di Gurdjieff, Steiner, Scaligero, Adriano Olivetti, dello stesso Evola…) in grado di definire codici adeguati a interpretare la contemporaneità: “Quell’abitudine al pensiero – sottolineava appunto Revelli – ha permesso a molti un’evoluzione convergente con l’area democratica delle culture politiche di questo paese”.
È in questo preciso milieu, in cui si tentavano di coniugare modernità e tradizione, libertarismo e spiritualità, che emergevano quegli esperimenti metapolitici ma anche movimentisti i quali, tra la fine dei Settanta e la metà degli Ottanta, hanno accompagnato la cosiddetta Nuova Destra, la generazione Campo Hobbit, la rivista Linea, alcune mobilitazioni delle componenti rautiane e niccolaiane del Msi di quegli anni… Niente però nel complesso che avesse a che vedere, per chi s’era accostato a “quegli ambienti”, con la creazione di una Grande Destra, conservatrice o reazionaria, niente a che vedere con pulsioni autoritarie, nostalgiche, patriottarde, stataliste, razziste, moraliste, integraliste e via dicendo… Era il contesto in cui le stesse posizioni più evolutive del Fronte della Gioventù e del Msi dei primi anni Ottanta – garantismo, ecologismo, critica all’imperialismo e all’interventismo militare americano, mandare la Dc all’opposizione, unità generazionale per il rinnovamento – definivano una faglia di trasversalismo con altre aree politico-culturali, soprattutto giovanili: Cl, i Verdi, i radicali, i socialisti martelliani, etc. etc. etc.
Si vada a leggere l’introduzione di Beppe Niccolai a Fascismo immenso e rosso di Giano Accame per rendersene conto… E sul finire degli anni Novanta, non ci si era quasi tutti riconosciuti nel senso del titolo del bel libro di Stenio Solinas Per farla finita con la destra, divenuto quasi uno slogan? Ecco perché oggi, quando tutte le ipotesi destrorse sono state sconfitte, chi s’è formato in quel contesto dovrebbe solo gioire e verificare che già allora si stava nella posizione giusta… Poi, è vero, tra il 1993 e il 1995, nacque An, e poi il bipolarismo e il centrodestra, e molti si illusero che si trattasse del momento tanto atteso. Non fu così per chi scrive, che non aderì mai a quei progetti, ritenuti anzi come una battuta d’arresto e un passo indietro rispetto al rinnovamento di cui l’Italia aveva bisogno…
Oggi, comunque, non è solo un bene che il quadro si sia semplificato attorno ai contenuti e ai progetti piuttosto che ai recinti e alla logica da tifoseria ma tutto questo dovrebbe essere vissuto e pensato come la realizzazione di un obiettivo a lungo atteso. Non a caso, come in molti – si pensi solo a Massimo Cacciari – lo dicevamo infatti da anni e anni: qui ci si deve definire (e dividere) su scelte di campo reali e scelte concrete non su astratte appartenenze di schieramento (tutte da verificare). Si è infatti libertari o autoritari? Riformatori o moderati? Innovatori o populisti? Riformisti consapevoli o, invece, superficialmente pronti a farsi incantare dalle sirene della propaganda? Insomma, che in Italia possano nascere polarità attorno a questioni, scelte e programmi non dovrebbe più essere ormai solo un auspicio ma un processo in atto da favorire e incrementare nelle sue potenzialità di sviluppo.
“Destra addio”, allora? Certo, e forse era pure ora! Oltretutto, la scomparsa di una capacità attrattiva e propulsiva definita da questa (come da qualsiasi altra omologa) etichetta topografica sarà secondo noi preliminare alla ridefinizione di un contesto generale di ri-mobilitazione politica. In questo processo di semplificazione, penso anche che il ruolo svolto – magari inconsapevolmente e forse anche “suo malgrado” – da Gianfranco Fini sia stato determinante e decisivo. Non solo, infatti, la sua clamorosa e plastica rottura con Berlusconi ma, soprattutto (e più nel profondo), i suoi cosiddetti strappi dal 2003 in avanti hanno via via rotto l’incanto di pensare il confronto politico solo come un gioco di collocazione spaziale nei termini “o di qua o di là”. Riportando, finalmente, la dialettica politica attorno alle questioni reali e schmittianamente “decisive”: diritti o no agli immigrati? “Ius soli” o “Ius sanguinis”? Cittadinanza estesa o no ai nuovi italiani? Riforme economiche e sociali oppure chiusura nei meccanismi consolidati? Adesione consapevole e convinta a uno Stato garante di diritti oppure scorciatoia autoritaria in nome della solita ragion di Stato?
L’errore, se errore c’è stato, è stato semmai quello di non essere andati fino in fondo nel dire che il Re è nudo e che la politica è altro dall’identificazione e dalla rappresentazione di un oggetto e uno spazio definito destra. L’evocazione da parte di qualche giornalista e studioso vicino a Fini di una presunta “destra nuova” o di altre amenità simili hanno solo ingenerato confusione, equivoci e sollecitato illusioni in coloro che minimizzavano e disinnescavano la portata degli strappi di Fini parlando banalmente della costruzione di “un’altra destra”.
Operazione che era tutto l’opposto, per fare un caso che mi ha coinvolto di quell’enorme azione di destrutturazione e ri-definizione attraverso l’immaginario che è stato compiuto scrivendo e pubblicando Fascisti immaginari. Rileggendo infatti tutti gli autori, i filoni, le opere, le suggestioni estetiche, le icone che hanno attratto e rappresentato un certo mondo – che era quello del neofascismo più evolutivo e del post-fascismo più innovativo e mutuatosi sulle orme del cosiddetto, affascinante anche se ambiguo e contraddittorio, “fascismo di sinistra” – emergeva in primo piano un’essenza che, in modo trasversale e in tutta la sua complessità spesso anche contraddittoria, si fissava in una matrice indiscutibilmente libertaria, oltre la destra e la sinistra. Che spesso non era né rivendicata né teorizzata consapevolmente – ma semmai anche rimossa e censurata nel discorso pubblico – ma che però restava come determinante e sintomatica, quasi fosse il comune denominatore impronunciabile di tutta un’antropologia e una geografia simbolica.
E proprio da questo particolare approccio – fondato sull’immaginario – transitavano la passione di certi ambienti per autori irregolari e di frontiera sia, come ha acutamente annotato Simonetta Fiori su Micromega, il “rileggere in chiave libertaria alcuni esponenti della cultura della crisi”, al fine di interpretare adeguatamente la complessa grammatica dei diritti nella società del Novecento. Non a caso interrogare seriamente alcuni degli autori presentati e “liberati” in Fascisti immaginari – da Giuseppe Berto a Gaspare Barbiellini Amidei, da Indro Montanelli a Hugo Pratt, da Max Bunker a Lucio Battisti, da Beppe Niccolai a Gualtiero Jacopetti, da Roberto Calasso a James Hillman, da Enrico Ruggeri a Giampiero Mughini – non conduceva affatto a intercettare un universo di nicchia e recintatosi a destra ma, semmai, a liberare da ogni ghetto una cultura (anche politica) a vocazione potenzialmente maggioritaria. E che “di destra” proprio non era… Giuseppe Berto, scrittore di best seller e sceneggiatore di film di successo, era stato prigioniero non cooperatore a Hereford, era stato pubblicato da Leo Longanesi, era avverso all’antifascismo ma non si definiva certo di destra. “Io non voto”, disse qualche mese prima di morire nel 1978, “io il mio dovere lo faccio scrivendo: ho votato due volte per un amico socialista e quando mi sono accorto che non capiva nulla ho smesso di votare…”.
E lo stesso Hugo Pratt, di famiglia fascista e il cui Corto Maltese ha affascinato come quasi nient’altro l’immaginario neofascista, si definiva oltre le categorie, simpatizzò con i socialisti e i radicali… Gli esempi potrebbero essere ancora moltissimi, ma non servono. Rileggendo Fascisti immaginari – il libro che ho scritto con Filippo Rossi – si potrebbe comprendere come il meglio di tutto un immaginario si sarebbe potuto esprimere solo e soltanto “oltre la destra”, oltre quella logica, insomma, che qualcuno ha voluto chiamare “identitaria” ma la quale in realtà avrebbe dovuto essere correttamente definita “autoreferenziale” e “autosufficiente”…
Tutta questa potenzialità e questo particolare impasto di contaminazione è stato poi ben rappresentato dal Secolo d’Italia tra il 2005 e il 2011, nel periodo in cui ne sono stato caporedattore e poi direttore responsabile (pur essendo io un giornalista indipendente che non aveva mai aderito ad An) e che va ben oltre la pur importante attenzione verso artisti come Jack Kerouac, Guccini, Vasco Rossi, Nanni Moretti o De André apparsa su quella testata (e che molti detrattori hanno rilevato come se fosse stata l’unica azione allora svolta su quelle pagine). Forse non è bello e non è professionale passare alla prima persona ma, soprattutto dopo che è uscito un libro sulla storia di quel giornale e questa fase è stata completamente annullata o oscurata, è il caso di ricordarlo in quanto è estremamente utile ai fini di tutto il ragionamento che stiamo svolgendo.
Di quel Secolo (non mi riferisco ovviamente, alle cose che si pubblicavano per ordinario dovere di cronaca e necessità di seguire alcune vicende, e che sono le stesse che si pubblicavano anche prima e dopo…), infatti, diventarono firme autorevoli, di prima pagina o con rubriche fisse, miei amici e persone con cui avevo un’interlocuzione da anni come Fiorello Cortiana, che provenendo da Lotta Continua aveva fondato col suo amico Alex Langer i Verdi in Italia; come l’ex vicesindaco craxiano di Torino Enzo Biffi Gentili; come Umberto Croppi, Peppe Nanni & Monica Centanni, ovvero l’esperienza più coerente e conseguente della generazione neodestra e dei Campi Hobbit; come Omar Camiletti, ex indiano metropolitano e protagonista del ’77 romano prima di diventare un esponente autorevole dell’Islam italiano; come l’ecologista “profondo” Eduardo Zarelli; come Pier Paolo Segneri e Francesco Pullia, rappresentanti del partito radicale; come il vaticanista Gianni Valente, ex ciellino e autorevole esponente di un certo mondo cattolico; come l’ex militante di Amnesty Giuliano Compagno…
Per non dire degli articoli di un ex di Lotta Continua come Leonardo Tirabassi, del recupero delle firme di Franco Cardini e di Giano Accame, dei contributi “gratuiti” di Giampiero Mughini, di Pierluigi Battista, di Antonio e Gianni Pennacchi, dei disegni regalati da Pablo Echaurren, del dialogo in prima pagina con Alberto Asor Rosa… Se a questi apporti si aggiungono le scelte che personalmente volli in prima pagina e provenienti dal meglio della redazione (come l’articolo sulla necessità di capire il veltronismo o il primo “attacco” al velinismo berlusconiano) si potrebbe capire come e perché quel giornale in quella fase era diventato “interessante” ed era finito nella “strategia dell’attenzione” degli addetti ai lavori. Invito chiunque ad andare a vedersi nella collezione del Secolo di quegli anni i temi, i libri, gli autori sui quali creammo interesse e sconfinammo riuscendo oltretutto a trasformare quella testata in un foglio autorevole e consultato dagli altri giornalisti.
Fu inevitabile, comunque, la sintonia tra questo lavoro e quanto andava maturando e determinando Gianfranco Fini nello stesso (e parallelo) periodo… Apertura ai diritti degli immigrati, rivalutazione del Sessantotto, scioglimento degli equivoci sul razzismo e l’antisemitismo, fine delle posizioni legge & ordine, emersione inedita di un post-femminismo nuovo e complesso, dialogo con la sinistra più aperta… D’altronde anche i numeri di Charta Minuta, la rivista di Fare Futuro, cui collaborai con alcune idee (sulla questione giovanile, sull’immaginario, sul no al cattivismo e al politicamente scorretto) estesero la percezione di questa “rupture”con la destra e avviarono l’interlocuzione con intellettuali come Gianluca Nicoletti, Franco Bolelli o Giuseppe Conte…
Era destra o sinistra tutto questo? Ma chi se ne fregava… Era, semmai e finalmente, la prospettiva di una sintesi nuova e potenzialmente maggioritaria, tanto che questa sensibilità si ritroverà, pur frammentata, in tante battaglie degli ultimi anni: dalla primavera referendaria del 2012 all’astensionismo consapevole più recente, dalle aperture trasversali di Pisapia e Crocetta sino a certi temi evocati (e spesi male) da Beppe Grillo…
Che io personalmente sollecitassi una maggiore determinazione su questa linea potrei anche argomentarlo con un piccolo ma significativo episodio. Quando l’editore Coniglio ci propose di raccogliere il meglio degli articoli del Secolo e di Charta Minuta che attestassero l’emersione di questo nuova soggettività politica feci infatti di tutto – ma non li convinsi – a non titolare come poi decise l’editore In alto a destra, propendendo per ipotesi più corrette come Oltre la destra o ancora meglio, Più “nuova” che “destra”… Sul destino dell’aggregazione attorno a Fini, oltretutto concordo in pieno con Umberto Croppi: “Doveva diventare il coagulo di una aggregazione di tipo nuovo, più vasto, con altri protagonisti. La costituzione di un partito, che Fini stesso ha subito, tant’è vero che più volte ha parlato di un superamento di Fli, era una necessità di passaggio molto limitante, che conteneva già nella sua nascita tutti gli elementi che l’hanno poi portato a diventare un frammento…”.
Concordo, anche perché ho dal mio piccolo sempre messo in guardia – anche con articoli su Il futurista – dalle tentazioni minoritarie che consistevano nel ritagliarsi uno spazio da destra laico-liberale (sulle orme da consenso “zero virgola” da vecchio Pli e inseguendo posizioni equivoche sui cosiddetti temi etici, quando sarebbe bastato seguire cattolici come Franco Cardini o Giovanni Reale) o quello da destra giustizialista “alla Travaglio”. Per non dire dell’equivoca percezione “centrista” fatta passare per ragioni tattiche ed elettorali. Lo spazio naturale era invece quello che aveva portato alle sintonie con Massimo Cacciari, con Giacomo Marramao, con Roberto Vecchioni, con il Premio Strega Antonio Pennacchi, con Umberto Ambrosoli, con Antonello Venditti, con gli studenti in protesta sui tetti di architettura a Roma, che aveva portato al recupero dei rapporti con figure come Tomaso Staiti…
Ripeto: il fallimento della (successiva) involuzione residuale, piccolo-partitica (e tardo-destrorsa) cui Fini ha dovuto alla fine soccombere (anche per ragioni di compromesso con i parlamentari ex An che l’avevano seguito nella rottura) non inficia però minimamente la giustezza dell’intuizione iniziale e la conseguenza finale degli “strappi”. L’aver spinto su “quel” metodo sta – seppure ancora faticosamente e con un travaglio pur complesso e articolato – riconducendo infatti tutta la politica italiana a doversi ridefinire. E che Gianfranco Fini abbia contribuito a far finire il “mito incapacitante” di costruire una destra in quanto tale è comunque – la conferma starà agli storici e ai politologi di domani – un suo oggettivo merito politico. Il resto, sta a chi saprà interpretare e guidare i processi che verranno.
Ma il punto di non ritorno è stato senz’altro segnato. È il caso di ripetere quell’aforisma di Nietzsche che era molto caro ai tanti irregolari (anche probabilmente a quelli oggi pentiti) dei primi anni Ottanta: “Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave. Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle, e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella: guardati innanzi! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà. E non esiste più terra alcuna”.