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Raccontare l’immaginario: asterischi, ideologia, archetipi e cultura pop

di Francesco Vergovich
“Epica Etica Estetica dell’Immaginario”, è stato un laboratorio per capire come stiamo disimparando a raccontare il nostro mondo
Tex Willer

Negli ultimi decenni, l’immaginario collettivo occidentale – e italiano in particolare – si è trovato a navigare un mare in tempesta. Le correnti non sono solo quelle del mercato o delle tendenze, ma anche e soprattutto quelle del linguaggio, dell’etica, della politica. Nella narrazione – che si tratti di fumetto, letteratura o audiovisivo – il racconto dell’eroe, del viaggio, del conflitto, si intreccia sempre più con tensioni culturali che a volte sfiorano l’autocensura. Eppure, proprio in questo territorio minato, si gioca il futuro della creatività.

La mappa culturale del XXI secolo: chi sopravvive e chi soccombe

L’evento “Epica Etica Estetica dell’Immaginario”, il 12 e 13 aprile 2025 a WeGIL (Largo Ascianghi 5), ha provato a mettere ordine in questa complessità. Curato dal critico e saggista cinematografico Pier Luigi Manieri, con il supporto della Regione Lazio, questo incontro non è stato solo una rassegna, ma un laboratorio vivo per capire come stiamo raccontando (o disimparando a raccontare) il nostro mondo.

Tex, Goldrake e gli altri: quando l’immaginario fa paura

C’è stato un tempo in cui Goldrake, il robot alieno creato da Go Nagai, era il nemico pubblico numero uno. Correva l’anno 1978, e figure come Lucio Magri, Nilde Iotti e Alessandro Corvisieri tuonavano contro la violenza di quei cartoni giapponesi che, oggi, consideriamo quasi innocui. Quella polemica, però, non era solo ideologica: metteva a nudo una tensione mai sopita tra l’“immaginazione” e la “morale pubblica”.

È un corto circuito che si ripresenta oggi, magari sotto altre forme. Quando nel 2024 Repubblica descrive Tex Willer come “maschilista e razzista”, non fa solo una valutazione critica: riattiva quella tensione tra immaginario popolare e ideologia che attraversa tutta la nostra modernità. La domanda resta la stessa: può l’eroe, oggi, essere ancora eroe, o deve diventare un’entità neutra, educata, conforme?

L’identità dell’eroe: pericolo o salvezza?

In un’epoca di globalizzazione esasperata, dove i confini culturali si sfaldano e si rinegoziano, il concetto stesso di identità narrativa diventa scivoloso. L’eroe classico – spesso bianco, maschio, occidentale – è sotto esame. Ma cancellarlo significa davvero evolvere, o è solo un nuovo modo di appiattire le differenze?

Dalla letteratura epica di Ariosto e Tasso fino alla prosa esotica di Salgari, passando per le sorelle Giussani con Diabolik, o il genio di Pratt e il western umanista di Sergio Leone, l’Italia ha saputo costruire immaginari archetipici potenti. Ma oggi rischiamo di dimenticarne la forza. O peggio: di rinnegarla in nome di un’etica corretta ma debole, incapace di abbracciare il mito, il conflitto, la contraddizione.

Dalla Pop Art al cinema d’evasione: il sublime della leggerezza

Nel percorso che va dal Futurismo alla Metafisica, fino alla fantascienza pop di Goldrake e all’ironia concettuale della Pop Art, c’è una lezione che non dovremmo dimenticare: l’immaginario non è solo intrattenimento. È anche struttura mentale, simbolo, rito collettivo.

L’arte popolare ha sempre sublimato l’iconico: l’ha reso accessibile, ma mai banale. Pensiamo al cinema di genere, oggi troppo spesso relegato a “serie B”, mentre altrove – basti vedere il successo mondiale di certo cinema d’azione coreano o dell’animazione giapponese – viene trattato con il rispetto che si deve a un linguaggio maturo. In Italia, dove l’evasione è ancora vista con sospetto, si può ancora parlare di cinema avventuroso senza essere accusati di superficialità?

Raccontare oggi

Scrivere un romanzo, un film o anche una graphic novel, oggi, significa danzare tra fuochi incrociati. Da un lato, la pressione dei mercati globali, con le loro regole di engagement, formati e algoritmi. Dall’altro, la spinta della correttezza ideologica, che spesso impone l’inclusività come dogma più che come principio.

Il problema non è l’inclusione in sé, ma la perdita dell’organicità narrativa. Aggiungere un personaggio solo per soddisfare un target demografico, o riscrivere una storia per evitare ogni possibile offesa, non è “aggiornare”, è disinnescare. E una narrazione disinnescata è una narrazione senza urgenza, senza attrito, senza verità.

L’etica dell’immaginario: non tutto si può dire, ma tutto si può raccontare

Il vero punto non è se l’immaginario debba essere etico, ma come lo sia. L’etica dell’immaginario non si misura a colpi di asterischi, ma nella capacità di creare mondi credibili dove il bene e il male possano ancora combattersi. Dove i personaggi possano anche essere imperfetti, sbagliati, persino offensivi, ma umani. Dove l’eroe, maschio o femmina, queer o conservatore, possa ancora affrontare prove, perdere, imparare, redimersi.

È in questa prospettiva che la rassegna curata da Manieri prova a ridare dignità a un discorso spesso sbrigativamente liquidato come “nostalgico” o “populista”. In realtà, l’analisi che si propone è scientifica, accademica, eppure profondamente appassionata. Perché la cultura dell’immaginario non è un optional, né un rifugio infantile. È una necessità antropologica.

L’ideologia woke e la tirannia della forma: quando le parole diventano gabbie

C’è un paradosso che si sta consolidando nella cultura contemporanea: quello per cui, in nome della libertà, si impongono nuove forme di censura. Non la censura autoritaria di un tempo – verticale, statale, manifesta – ma quella più subdola del consenso moralista, che agisce tramite il linguaggio, la pressione sociale, la marginalizzazione delle voci dissonanti. È l’effetto collaterale, ma non imprevedibile, dell’ideologia woke.

Il termine nasce in America, con un significato inizialmente virtuoso: essere “woke” significava essere svegli, consapevoli, attenti alle disuguaglianze razziali e sociali. Un impulso necessario, soprattutto in un Paese dove certe ferite sono ancora aperte. Ma come spesso accade ai concetti politici che diventano culturali, la parola si è rapidamente gonfiata fino a diventare una caricatura di sé stessa. Oggi l’essere “woke” è meno un atto di coscienza e più una postura. Una forma di militanza estetica e verbale, che ha finito per irrigidire il campo creativo, spesso annientando il senso stesso del racconto.

Asterischi, schwa e la grammatica dell’inclusione forzata

La lingua, che dovrebbe evolversi organicamente, è diventata campo di battaglia. Le parole non sono più strumenti di comunicazione ma simboli di affiliazione. L’uso dello schwa (ə) o degli asterischi, la riscrittura di sostantivi e aggettivi per evitare il maschile sovraesteso, la moltiplicazione delle desinenze per includere ogni genere possibile – tutte queste sono operazioni che hanno uno scopo dichiarato: rappresentare tutti.

Ma a quale prezzo? La leggibilità ne risente, la musicalità della prosa si spegne, la narrazione rallenta. E, soprattutto, viene meno la fiducia nei lettori, ai quali si presume di dover spiegare, educare, correggere. È un paternalismo mascherato da emancipazione. Persino la creatività popolare – dai fumetti ai videogiochi – si ritrova invischiata in una rete semantica dove ogni parola può essere un’esca per la polemica.

Un esempio recente: il dibattito attorno a “Biancaneve” e l’eliminazione dei sette nani perché ritenuti offensivi nei confronti delle persone affette da nanismo. Nessuno discute l’intenzione, ma il risultato è una riscrittura talmente chirurgica da perdere qualsiasi spontaneità narrativa. Oppure le polemiche su James Bond, che da uomo d’azione imperfetto è stato progressivamente convertito in un personaggio “decostruito”, neutro, riflessivo – insomma, un antieroe costruito per non disturbare nessuno.

Pregiudizi comunque: il nuovo sospetto sul classico

Una delle derive più inquietanti di questo clima è la rilettura ideologica retroattiva di tutta la cultura passata. Opere, personaggi e autori vengono processati con i criteri etici del presente, come se l’arte dovesse rispondere a codici morali fissi e immutabili. È il caso di Mark Twain, censurato per il linguaggio razzista dei suoi personaggi, o di H.P. Lovecraft, accusato di xenofobia al punto da rendere “scomoda” perfino la sua influenza letteraria.

Nel panorama italiano, la vicenda di Tex Willer, accusato di maschilismo e razzismo da alcune testate nel 2024, è sintomatica di un atteggiamento sempre più diffuso: quello di voler correggere l’immaginario piuttosto che comprenderlo. Ma l’immaginario non è una dichiarazione programmatica. È, per sua natura, ambiguo, stratificato, spesso contraddittorio. La bellezza del racconto sta proprio lì: nella sua capacità di contenere il buono e il cattivo, il lecito e l’illecito, il chiaro e l’ombra.

L’autore sotto processo: paura e autocensura

In questo clima, scrivere – qualsiasi cosa – è diventato un atto di rischio. Gli autori, specie quelli che lavorano nel mainstream, si trovano a rivedere, limare, annacquare i propri testi per evitare incidenti reputazionali. Non c’è più solo l’editor o il produttore: oggi esiste anche il “sensibility reader”, figura semi-editoriale nata negli USA per verificare che nessuna parte del testo possa urtare la sensibilità di minoranze o comunità.

La conseguenza? La narrazione si appiattisce. I personaggi diventano simboli, non più persone. L’identità narrativa si standardizza: tutti parlano con lo stesso tono pacato, rispettoso, neutro. L’estetica del conflitto – cioè quella capacità tutta letteraria di far emergere tensioni, fragilità, difetti – scompare.

In questo scenario, viene da chiedersi: chi sta davvero decidendo cosa è giusto raccontare? E quanto stiamo perdendo in termini di libertà espressiva, profondità psicologica, densità simbolica?

 

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