Balla da sempre il dio Shiva, danzatore cosmico, e guai se dovesse smettere di farlo: l’universo intero con la sua musica subatomica smetterebbe di proiettarsi sulla tela materica dell’esistenza. Danzavano gli etruschi intorno ai sepolcri, si ballava nel ’68 a Woodstock, piroettano i sufi per indurre l’estasi mistica, e così morde il ritmo della Taranta nel sud Italia. “La danza è una delle forme più perfette di comunicazione con l’intelligenza infinita”, ha scritto Paulo Coelho. Dall’alba dei tempi la danza, la cerimonia o festa religiosa e l’uso di sostanze capaci di alterare le facoltà cognitive si trovano negli aggregati umani.
Si balla tutti i sabati sera come rituale di liberazione, di iniziazione, di seduzione, perché anche se siamo nell’era del Metaverso la nostra corporeità e il nostro ancestrale bisogno di comunità e di gesti ripetitivi non è tramontata. Lo spiega magistralmente il filosofo Han ne “La scomparsa dei riti. Una topologia del presente” in cui propone un recupero del simbolismo dei riti come pratica “potenzialmente in grado di liberare la società dal suo narcisismo collettivo, riaprendola al senso di una vera connessione con l’Altro – e reincantando il mondo”.
E si balla ai rave, raduni giovanili in cui la danza è forma di protesta e contestazione dell’ordine costituito. Dopo sole 48 ore dall’approvazione in Consiglio dei Ministri, il governo Meloni comincia già modificare discusso decreto anti-rave che vieta anche gli eventi che vedono più di 50 persone riunite. I punti discussi sono due: l’eccessiva genericità della norma (con i pericoli di ledere le libertà costituzionali che comporta), e la possibilità di usare le intercettazioni per le indagini (consentito di solito solo per rearti di mafia e omicidi).
La questione però è antropologica prima che giuridica. Ed è complessa perché non si possono neppure liquidare alla svelta le implicazioni anti-rave, legate alla sicurezza pubblica, all’uso di stupefacenti, e al vasto impiego di forze dell’ordine sottratte ad altre funzioni di pubblico interesse. Del resto, dal momento del patto sociale, l’uomo trova sotto la legge la sua (sempre limitata e con funzione mediatrice) libertà, e finché non realizzeremo di meglio, questo è il miglior compromesso concreto per vivere collettivamente, che abbiamo trovato.
A proposito del fenomeno free party il Corriere della Sera ha intervistato Pierfrancesco Pacoda professore al Dams. Pacoda è infatti autore del saggio “Sulle rotte del Rave. DJ party e piste da ballo da Goa a Londra da Bari a Ibiza”.
L’accademico spiega che in Germania e altri stati europei i rave sono stati istituzionalizzati e regolamentati e sono diventati persino canali di entrate per le casse dello stato. “Là, di rave illegali, ce ne sono assai di meno, perché le amministrazioni danno spazi a chi organizza questo genere di eventi, in quanto sono considerati cultura e non solo una questione di ordine pubblico. E infatti hanno generato un enorme indotto”. In Germania le regole generali dipendono molto dai singoli Land. Un party di musica che non sia privato deve essere anticipatamente dichiarato alle autorità locali. Deve inoltre avere un responsabile, deve seguire misure di sicurezza e igiene, non deve disturbare la quiete pubblica. E la polizia locale può intervenire se non vengono rispettate queste regole, spiega La stampa. Mentre in Francia i rave devono essere dichiarati alle autorità locali almeno un mese prima in Francia. Se il numero previsto di partecipanti è inferiore a 500, basta l’ok del sindaco, se è superiore bisogna rivolgersi al prefetto.
Tuttavia, se la ragione d’essere del rave è una visione anti-establishment, e il suo scopo è quello di rifiutare la società e le sue imposizioni e convenzioni, dove troverebbe ragione di essere un rave regolamentato? Legalizzare il rave non è come tradire la sua essenza anti-sistema? Non significa snaturare la sua vocazione dissidente, la sua aspirazione rivoluzionaria? La sua presunzione anarchica, la sua velleità artistica?
E qua la questione si fa filosofica, teologica persino.
La legge deve svolgere il suo compito, certo, ma anche la danza deve svolgere il suo. E il suo compito è sottrarsi sempre alle norme sociali e di costume. Si tratta di un divincolarsi metafisico, di un dimenarsi (torna la danza!) ontologico.
Nella danza c’è una dimensione apofatica, oltre umana, non predicabile, che non si può regolare, disciplinare, imbrigliare. Dunque ancora e ancora una canzone.
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