I momenti di crisi possono essere la premessa per il decadimento o la rinascita di un popolo e di una Nazione. Che sia vero lo dimostrano le vicende, analoghe ma molto diverse tra loro, delle nazioni uscite sconfitte dalla Seconda guerra mondiale: Italia, Giappone e Germania. Il dopoguerra lasciò ovunque lutti e devastazioni senza precedenti. Agli sconfitti portò anche sanzioni e disperazione: la Germania nazista subì lo smembramento territoriale e il Giappone le conseguenze della devastazione atomica. L’Italia, colpevole di essere la culla del fasci-nazismo e che veniva già da una condizione economica e sociale arretrata, anche se ben mascherata dalla prosopopea mussoliniana, rischiava più di tutti.
Ma la Resistenza antifascista, col suo contributo di sangue nella lotta di liberazione, consentì ad Alcide dé Gasperi, alla Conferenza di Pace di Parigi, di prendere la parola in difesa dell’Italia, con un memorabile discorso che salvò il futuro e l’integrità territoriale del nostro Paese.
Le tre Nazioni sconfitte costruirono in modi e tempi diversi la loro rinascita, ma l’Italia riuscì nell’impresa unica e straordinaria, di dare vita al “boom economico”. Negli anni ’50 e ‘60 il mondo ammirò la capacità della piccola e media industria italiana di eccellere nell’invenzione, ideazione e realizzazione di tanti prodotti che hanno segnato persino la storia del disegno industriale. In questo processo, va detto, ebbero un ruolo non secondario gli aiuti americani del “Piano Marshall”.
L’Europa sta ora predisponendo, col Recovery Fund, il “Piano Marshall” del post Covid 19. Un’occasione che l’Italia dovrebbe cogliere al volo, sfruttando le opportunità offerte da questa occasione con la stessa capacità, voglia ed impegno che dimostrò nel secondo dopoguerra. Ma ne siamo capaci? Non sono un pessimista, ma se guardo con oggettivo distacco la realtà del nostro Paese, direi di no.
Le condizioni sono certamente diverse, anzi, dovremmo dire migliori. Ma solo apparentemente. Perché se è vero che non dobbiamo ricostruire un Paese e un territorio devastati dalla guerra, è altrettanto vero che il territorio, le città, le aziende, la società civile e l’organizzazione dello Stato, sono stati devastati negli ultimi trent’anni da qualcosa che si è rivelato, vittime a parte, peggiore di una guerra: incuria, superficialità, pressappochismo, disorganizzazione, corruzione e bieco interesse individuale, che hanno anche generato decadenza morale e culturale nella società e nella politica. Forse ho persino dimenticato qualcosa, ma ce n’è abbastanza per capire che ricostruire sulle macerie lasciate da un conflitto, con l’entusiasmo di chi torna a vivere, è più facile che ricostruire un Paese danneggiato dall’interno e che da tempo ha perso, soprattutto tra i giovani, l’entusiasmo, la passione e la voglia di fare.
La ricetta per la rinascita di una Nazione non si può elaborare a tavolino. E’ una ricetta fatta di tanti ingredienti, che devono essere dosati e mescolati con sapienza e conditi da un pizzico di fortuna. Ma si può provare ad immaginarne alcuni. Uno di questi è la ricerca dell’eccellenza. La formula dell’eccellenza è basata su tre fattori: talento, studio, applicazione. Il talento è innato negli individui e, parafrasando Manzoni, “uno se non ce l’ha non se lo può dare”. Ma di giovani talentuosi ne abbiamo in abbondanza. Dunque, dobbiamo fare in modo che essi abbiano voglia di applicarsi con dedizione ed entusiasmo. Non parliamo di sacrificio, parola impronunciabile nel tempo dei social e dei facili successi di influencer di dubbio valore.
Uno dei modi per indurre all’entusiasmo e all’impegno i nostri ragazzi è quello di dare loro una scuola ben organizzata, attrezzata al meglio e dotata di buoni insegnanti. Una scuola che quindi necessita di investimenti – e qui il Recovery Fund può fare molto – e di sostegno ai migliori studenti, che offra prospettive di lavoro e di sviluppo delle idee, anche in raccordo con le imprese e il mondo della produzione.
Basta questo? No, servono anche le famiglie, che in questo processo possono essere determinanti. Famiglie che non vogliano un figlio diplomato o laureato ad ogni costo, ma che pretendano che i loro figli imparino e vadano avanti solo se davvero lo meritano. E non parlo del merito rappresentato dai voti, che sono un accidente a volte casuale, ma della voglia di impegnarsi e di migliorarsi. E nessuno meglio dei genitori sa se un figlio ha o meno questa tendenza e questa aspirazione.
La famiglia dovrebbe anche distaccarsi dalla scuola. Non è un passo indietro rispetto alle conquiste di questi anni, anzi. Le famiglie devono essere coinvolte nei processi migliorativi e di gestione degli Istituti scolastici, ma devono astenersi dall’entrare in conflitto con gli insegnanti con l’intento, sempre sbagliato, di proteggere i figli dalle difficoltà. Le menti migliori spesso si forgiano nelle difficoltà e un insuccesso a scuola non deve essere considerato automaticamente un fallimento. Ed anche se lo fosse, un fallimento non sarebbe una sconfitta definitiva.
In Italia il fallimento è considerata una sconfitta, mentre, come ci insegnano tanti scienziati, imprenditori e qualche Premio Nobel, spesso da un fallimento si pongono le basi per raggiungere un grande successo e, in qualche caso, persino l’eccellenza. Consiglio a tutti, ma soprattutto ai giovani, di andarsi a leggere la storia di Soichiro Honda, narrata mirabilmente da Virgilio De Giovanni in “Senza padroni” (Rizzoli 1996). Lo straordinario successo del fondatore di una delle più grandi aziende del pianeta fu scandito, nei primi anni, da cocenti delusioni, da alcuni errori e da una pesante sfortuna. Che tuttavia non lo fermarono.
Il diploma e la laurea non devono nemmeno essere considerati preferibili o in antitesi con la possibilità di imparare un mestiere specialistico. Abbiamo bisogno di scienziati e professionisti, ma anche di bravi artigiani e di manodopera qualificata, nell’industria e nell’agricoltura. Molte famiglie, se adeguatamente informate, preferirebbero indirizzare un figlio ad un mestiere interessante e soddisfacente, che lo vedrebbe immediatamente inserito nel mondo del lavoro, piuttosto che ad una laurea presa per forza con la prospettiva di finire disoccupati.
Sarebbe stato più utile per l’Italia investire i soldi del discutibile “reddito di cittadinanza” nella formazione di giovani e meno giovani in professioni specialistiche, peraltro ben retribuite, delle quali nel nostro Paese c’è da sempre una grave carenza. Ma questo sarebbe il compito di un Governo serio.
Il Recovery Fund, con i suoi duecento miliardi di euro, può essere per l’Italia il “Piano Marshall” del XXI secolo e dobbiamo programmare bene come utilizzarlo. Per questo non trovo scandaloso che qualche forza politica insista a ché il Governo si attrezzi per gestire questa massa di danaro in modo da farla essere la molla di una rinascita in settori decisivi e strategici per il Paese. Indurre il Premier Conte a confrontarsi senza remore su quanto, come e dove indirizzare queste risorse è doveroso e ragionevole. Molto meno doveroso è dare l’impressione che questo confronto, alla fine, si risolva solo nella corsa dei partiti ad accaparrarsi poltrone di Governo, che sarebbe l’ennesima occasione persa dalla nostra politica per provare a somigliare, almeno un poco, ai padri fondatori della Repubblica.
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