Il Vangelo della croce
Nel vangelo di Marco la croce non appare all’improvviso nell’orizzonte del discepolo: già nel battesimo, Gesù è il Figlio amato, come Isacco il figlio offerto in sacrificio; i discepoli digiuneranno quando “lo sposo sarà loro tolto di mezzo”; per tre volte annuncerà ai discepoli increduli la sua passione, morte e risurrezione; percorrendo le strade della Galilea, farisei ed erodiani tramano contro di lui per farlo morire. Attorno a Gesù si crea il vuoto e il Messia percorre la sua strada in una solitudine sempre più dolorosa. Dopo l’entrata festosa in Gerusalemme, il conflitto intenso con le autorità nel tempio segna la rottura definitiva e sancisce l’inizio della passione.
La spogliazione di Gesù
Nel contesto della condanna a morte, attraverso la spogliazione delle vesti (15, 24) si voleva espropriare il condannato di tutto ciò che ancora garantiva un suo legame con la comunità dei viventi: nudo, egli era dichiarato non-persona. Privato delle vesti, Gesù è dichiarato pubblicamente estraneo a ogni relazione con la comunità, maledetto da Dio ed espulso dal popolo dell’alleanza. Sulla croce, esposto nudo agli occhi dei passanti, la condizione di totale solitudine è evidenziata dall’evangelista Marco: i discepoli lo hanno abbandonato (14, 50); i passanti, i sommi sacerdoti, scribi e persino coloro che condividono la sua stessa sorte, lo insultano e beffeggiano (15, 29-32). Udendo le loro parole (“il Cristo, il re di Israele, scenda ora dalla croce”), ironicamente essi testimoniano la verità, perché Gesù è realmente il Cristo e il re di Israele. Ma contrariamente alle aspettative umane, proprio rimanendo sulla croce, Gesù manifesterà la propria identità e soltanto coloro che continueranno a fissare il volto del Crocifisso potranno vedere e credere.
La morte di Gesù
L’ora sesta (mezzogiorno) introduce un cambiamento radicale nella scena della crocifissione: l’evangelista segnala l’avvento delle tenebre che immergono il Calvario nel buio e nel silenzio (15, 33). Per tre ore, non si registra alcuna parola, alcuna azione, come se la desolazione del Crocifisso si rispecchiasse nella notte che lo circonda, oscurando il periodo più luminoso del giorno. Nel linguaggio biblico le tenebre assumono significati diversi: sono segni rivelatori del giudizio di Dio e dell’avvento del giorno del Signore. Per il discepolo divengono un segno che Dio è presente, agisce, anche se in modo incomprensibile, nella morte del Figlio.
Nell’ora nona (le tre del pomeriggio) Gesù si rivolge a Dio gridando a gran voce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (v. 34). L’evangelista non ha paura di scuotere, di scandalizzare il futuro discepolo e ricondurlo contemporaneamente alla realtà, quella del cammino di progressivo abbandono che accompagna il percorso umano di Gesù: abbandonato dai suoi amici, tradito da Giuda, rinnegato da Pietro, ora sulla croce vive l’esperienza umana più tragica e comune, la percezione del silenzio di Dio.
Persino il Padre ha abbandonato Gesù, lo ha tradito (consegnato). Gesù, consegnato nelle mani degli uomini, viene distrutto nella sua umanità, nella sua missione, e proprio il silenzio del Padre sembra sancire tutto questo.
Inoltre, l’evangelista Marco vuole educare la propria comunità ad un sano realismo, togliendo ogni illusione di facile successo e potere. Come Giovanni Battista, anche Gesù è rifiutato, condannato e ucciso. Lo stesso destino attende la comunità del Crocifisso. Non esiste sequela senza croce, perché la persecuzione è sigillo dell’appartenenza del giusto a Dio. Il Vangelo raggiungerà tutte le nazioni, ma gli annunciatori sperimenteranno rifiuto, odio e persecuzione. In questi momenti potranno percepire che la loro sofferenza è abitata dal Maestro, perché Gesù Cristo è morto per estendersi a tutti.
Al silenzio del Padre risponde l’ultimo fraintendimento umano: “Ecco, chiama Elia” (v. 35). Il riferimento a Elia ricorda la fede popolare giudaica, che considerava il grande profeta come colui che assiste il giusto nell’ora della morte, offrendogli conforto e salvezza. Gesù, invece, sta gridando la sua preghiera al Padre, il suo abbandono, il suo silenzio: “Eloì, Eloì, lammà sabactanì” (v. 34). Gesù, emesso un forte grido, muore. Mentre il forte grido potrebbe esprimere la lacerazione dolorosa che accompagna la morte, il verbo esalare utilizzato da Marco evoca lo spirito, suggerendo che chi fissa la croce è invitato a comprendere che in questa fine è racchiuso un nuovo inizio segnato dal dono dello Spirito.
Il segno e i testimoni
L’evangelista mostra soltanto un segno che accompagna la morte di Gesù: lo squarciarsi del velo del tempio. Il luogo storico della presenza di Dio è ormai distrutto. La sua Presenza è ora esposta nel corpo crocifisso del Cristo. Persino un centurione pagano può vedere in lui ciò che realmente è, il Figlio di Dio (v. 39). Il centurione non condiziona la fede all’eliminazione della croce: al contrario è proprio la croce che gli rivela Gesù come Figlio di Dio.
La sepoltura
Siamo all’ultimo atto dell’esistenza umana di Gesù. Giuseppe di Arimatea con coraggio si reca dal governatore romano per richiedere il corpo di Gesù. Se un uomo autorevole (membro del Sinedrio) rischia la propria vita per chiedere il corpo di un giustiziato, se personalmente ne prepara una degna sepoltura, pur non essendo un suo discepolo, ciò significa che non solo ha riconosciuto l’infondatezza delle accuse rivolte a Gesù, ma che ha grande stima per la sua persona e il suo messaggio. La deposizione nella tomba sottolinea come Gesù abbia avuto una sepoltura dignitosa, contrariamente all’uso di lasciare i corpi dei condannati sulla croce, esposti alla putrefazione e preda degli uccelli rapaci. Il sepolcro sigillato da una grossa pietra, testimone inconfutabile della morte, diventerà il testimone di un cambiamento totale il mattino di Pasqua.
Bibliografia consultata: Gatti, 2018.
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