Un dottore della Legge interroga Gesù con una domanda apparentemente innocua, ma in realtà tendenziosa: “Maestro, che cosa devo fare per avere la vita eterna?” (Lc.10, 25). La tendenziosità viene subito denunciata dall’evangelista: il dottore della Legge interrogò Gesù “per metterlo alla prova” (v. 25), dove il verbo usato (peirazo) è il medesimo per descrivere le tentazioni di Satana (Lc. 4, 1-13). Che si tratti di una domanda falsa e mal posta il lettore lo sa anche perché, il Maestro aveva ribadito che l’ingresso nella vita eterna è un dono di Dio e non è conseguenza di particolari meriti acquisiti dagli uomini: “rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli” (v. 20).
Come avvenne nell’episodio delle tentazioni nel deserto, Gesù risponde rinviando alla Legge: “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?” (v. 26). Una domanda più che opportuna, considerata l’autorevolezza dell’interlocutore (un dottore della Legge), il quale risponde con esattezza: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso” (v. 27). L’amore prescritto dalla Legge richiede un coinvolgimento totale della persona, sia nei confronti di Dio sia nei confronti del prossimo. Gesù riconosce la bontà della risposta, invitando così a tradurla in pratica: “Hai risposto bene; fa questo e vivrai” (v. 28), ma soprattutto mostrando di essere lui il vero conoscitore della Legge.
Possiamo immaginare che il dottore della Legge non abbia accettato di buon grado la contro domanda di Gesù, forse perché questi ha smascherato la sua vera intenzione. Il dottore, quindi, “volendo giustificarsi” (v. 29), chiede a Gesù chi è il suo prossimo, cercando di trascinare il Maestro in una complicata questione relativa alla casistica giudaica, secondo la quale, i pagani, i samaritani e i peccatori, non fanno parte della categoria “prossimo”. Di fatto il dottore della Legge vuole che Gesù introduca una vera e propria discriminazione tra gli esseri umani, alcuni dei quali sono da amare perché “prossimi”, e altri no.
In ogni caso la domanda offre al Maestro l’occasione di narrare la parabola del buon samaritano. Raccontando una storia, Gesù costringe il suo interlocutore a riflettere e a rispondere da sé alla domanda posta precedentemente, sottraendosi così ancora una volta al pericolo nella trappola che quest’ultimo gli aveva teso (v. 25).
La parabola narra della vicenda di un uomo che da Gerusalemme scendeva a Gerico. Si tratta di un percorso impervio lungo circa trenta chilometri e con un dislivello di mille metri. La pericolosità del cammino era legata al fatto che il viandante era costantemente esposto all’attacco dei banditi, nascosti negli anfratti rocciosi ai margini della strada: “l’uomo cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto” (v. 30).
A questo punto ecco comparire sulla scena del racconto due personaggi, un sacerdote e un levita: uomini dediti al culto del tempio di Gerusalemme, quindi uomini di Dio. Gesù deplora il loro comportamento, dal momento che essi, imbattutisi nell’uomo mezzo morto, anziché soccorrerlo, passano sull’altro lato della strada, tenendosi a debita distanza e proseguendo nel loro cammino.
Contrariamente al cattivo comportamento del sacerdote e del levita, un samaritano “vide e ne ebbe compassione” (v. 33): proprio un samaritano, che, agli occhi del pio dottore della Legge, era da considerarsi un eretico e perciò oggetto di disprezzo. Il samaritano “che ha compassione” esprime l’amore viscerale di Dio nei confronti dell’umanità e la compassione di Gesù nei confronti dei sofferenti. Dalla compassione scaturisce poi tutta una serie di azioni: “gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui” (v. 34). Tutti questi dettagli servono a Gesù per spiegare che cosa voglia dire “amare”: non un concetto astratto, ma azioni concrete, compiute soprattutto nei confronti di coloro che si trovano nel bisogno.
“Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?” (v. 36). La domanda di Gesù rispecchia il contenuto della parabola, mostrando che un “eretico” è più virtuoso dei benpensanti, ma soprattutto affermando implicitamente che l’amore che Dio si aspetta da ogni uomo non conosce barriere di sorta. Il concetto di “prossimo” non può essere definito giuridicamente, ma può essere compreso solo vivendo l’amore autentico, improntato a sentimenti di misericordia che non conoscono discriminazioni.
Il dottore della Legge è perciò costretto a riconoscere che il samaritano è il prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti. Il samaritano, agendo in nome della misericordia e della compassione, ha davvero incarnato gli stessi sentimenti di Dio nei confronti dell’umanità bisognosa, dando concretezza a un amore che, se autentico, non può essere rinchiuso in una definizione astratta. Gesù allora può rivolgere l’invito al dottore della Legge : “Và e anche tu fa così” (v. 37), affermando implicitamente che solo l’amore vissuto concretamente consente all’uomo di entrare nella vita eterna.
Bibliografia consultata: Gennari, 2019.
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