Dopo la sosta nella casa del fariseo anonimo, Gesù riprende il cammino verso Gerusalemme, e “una folla numerosa andava con Gesù” (Lc. 14, 25-33). Il Maestro coglie l’occasione per impartire un insegnamento sapienziale sull’autenticità del discepolato, con l’intento di denunciare la pericolosità di entusiasmi facili e illusori.
“Se uno viene a me e non 'odia' suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (v. 26). Molti esegeti spiegano la severità dell’affermazione di Gesù ricorrendo al modo di esprimersi semitico che, per comunicare l’idea della “preferenza” o dell’”amare di più”, ricorre al verbo “odiare”. L’evangelista Luca, a differenza di Marco e Matteo che hanno tradotto con sfumature più delicate la frase di Gesù, ha voluto mantenere l’affermazione provocatoria di Gesù, anche a costo di suscitare un certo imbarazzo tra i suoi lettori, come noi, i quali certo non si aspetterebbero di udire dal Signore siffatte parole.
“Odiare” non significa disprezzare, altrimenti Gesù cadrebbe in una palese e grossolana contraddizione con i suoi stessi insegnamenti, tutti incentrati sull’amore di Dio e del prossimo. Il verbo “odiare” si riferisce alla radicalità della sequela che Gesù esige dai discepoli: “colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo” (v. 27). Il discepolo è invitato dal Maestro a un amore esclusivo nei suoi confronti, tanto da essere disposto a rinunciare alla propria vita “per causa sua”.
Questa è la grande croce che ciascun cristiano è chiamato a portare: essere disposti a perdere (odiare) tutto, anche la propria vita, per amore di Gesù. Non va però dimenticato che come la croce non è stata l’ultima parola nella vita del Maestro, così non lo sarà in quella del discepolo. Con la risurrezione Gesù ha riavuto, per l’eternità, quella vita che aveva donato fino all’ultima goccia di sangue. Intimamente uniti alla risurrezione di Cristo, i discepoli riavranno tutto ciò cui hanno rinunciato per amore dello stesso Signore, non più per un breve tempo, ma per l’eternità. Odiare perciò significa amare di un amore totalmente gratuito, sull’esempio di Gesù, che non ha esitato a perdere la propria vita per la salvezza del mondo. Il cristiano è chiamato ad amare per amore di Gesù, non per amore di sé, dei propri cari o di ideali che, per quanto nobili, restano comunque troppo umani.
Gesù poi prosegue con due brevi parabole sul discepolato: quella della torre da costruire e quella del re che parte per una guerra. A quel tempo, nella terra di Israele, capitava di imbattersi in torri, il cui scopo poteva andare dalla difesa militare al deposito di attrezzi per l’agricoltura. “Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine?” (v. 28).
Anche la breve parabola del re che parte per la guerra ha una simile conclusione. La ripetizione della stessa domanda mira a richiamare l’attenzione degli uditori. Come intendere tale insistenza? Apparentemente Gesù sembra consigliare alle folle, prima di seguirlo, di “pensarci bene”, ma non è questo l’obiettivo principale della provocazione. Piuttosto, Gesù ricorda anzitutto, a chi lo vuole ascoltare veramente, che la sequela non è affare di un attimo, ma richiede tempo e pazienza e, di conseguenza, una buona dose di impegno e tanta perseveranza. In secondo luogo, le due parabole sottolineano la serietà della sequela, affinché nessuno pensi che si tratti di un’esperienza facile e priva di ostacoli.
“Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (v. 33). Gesù afferma che il cristiano deve liberarsi dalle false sicurezze cui è tentato di aggrapparsi, come le parabole precedenti portavano a concludere, ma deve concentrarsi sull’unica certezza, ovvero la Parola di Dio, vera ricchezza per chi crede.
Il discepolo deve avere il coraggio di “rinunciare” alle tante sicurezze che il mondo offre, soprattutto quelle che scaturiscono dal possesso dei beni materiali. La povertà è un tema particolarmente caro a Luca (cfr. la parabola del ricco stolto). Dalle parole di Gesù risulta chiaro che i mezzi umani, il denaro, il potere e persino una certa intelligenza di fatto non aiutano a essere discepoli del Cristo. Per seguire Gesù occorre “congedarsi” da tutto ciò che ostacola e impedisce un’adesione totale di sé alla persona di Gesù e al suo Vangelo.
Così, come da un lato si deve “odiare” la propria vita per seguire Gesù sulla via della croce, dall’altro, con altrettanta radicalità, ci si deve liberare da tutto ciò che inevitabilmente appesantirebbe tale cammino, impedendo di vivere un’autentica vita cristiana. Solo nel distacco è possibile la perseveranza, altrimenti si corre il rischio di essere risucchiati in un vortice di preoccupazioni e timori che finiscono per neutralizzare la potenza del Vangelo.
Seguire te, Gesù, significa esporsi con tutto quello che si è e che si ha, con i propri affetti e proprie risorse al vento dello Spirito e lasciarsi guidare dalla bussola del tuo Vangelo, del disegno di amore che sei venuto a manifestare e a inaugurare con la tua croce. Seguire te, Gesù, ci rende inevitabilmente disarmati e fragili com’è chi ama con tutto il cuore, com’è chi lascia tutto per affidarsi a te, com’è chi si libera da ogni altro impaccio per trovare in te ogni sicurezza. Seguire te, Gesù, è, in ogni caso, l’avventura più grande della nostra vita.
Bibliografia consultata: Gennari, 2019; Laurita, 2019.
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