Vite, uva, vino sono elementi profondamente radicati nella cultura biblica. Il testo liturgico che ascolteremo nella V domenica di Pasqua (Gv. 15, 1-8), deve essere compreso come parte di questa tradizione, soprattutto profetica, che presenta Israele coma la vigna del Signore (Yahweh). Tuttavia, è interessante notare che l’immagine della vigna è normalmente associata all’esperienza della crisi nel rapporto con Dio. Un testo emblematico è il canto d’amore proposto dal profeta Isaia (5, 1-4): la vigna sopra un fertile colle, tanto amata e coltivata dal Signore, invece di produrre uva, ha prodotto acini acerbi. La tradizione profetica è ripresa anche da Matteo (21, 33-43) nella parabola dei vignaioli perfidi.
Il vangelo di Giovanni si discosta da questa tradizione “negativa”, rivelando come, finalmente, la storia umana abbia generato una vigna che risponde alle attese del vignaiolo Gesù: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore” (v. 1). Con lo stile tipico di Giovanni, il testo è articolato in una serie di ripetizioni, mai identiche, perché come onde del mare ritornano su se stesse per portare il lettore a una profondità sempre più grande. Il filo d’oro che collega tutto il brano è costituito dal verbo “rimanere”, che ricorre ben 11 volte nel capitolo 15.
“Rimanete in me e io in voi” (v. 4); “Chi rimane in me porta molto frutto” (v. 5); “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca” (v. 6); “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto” (v. 7). Ma che cosa vuol dire “rimanere”? Nella tradizione biblica la stabilità non è una condizione umana. Soltanto Dio rimane: lui è roccia e dimora; soltanto Dio è da sempre e per sempre. In contrapposizione alla stabilità di Dio la Bibbia pone la frammentarietà della vita umana: è come un fiore di campo e il soffio del vento. L’evangelista Giovanni riprende questa tradizione: il Padre rimane in Gesù; Gesù rimane presso i discepoli; Gesù chiede al Padre di donare lo Spirito Santo perché rimanga con i suoi.
Poiché Dio rimane, l’umanità può porsi alla ricerca di lui. Nella frammentarietà dell’esperienza umana, segnata dalla morte, l’uomo cerca una dimora, una casa. “Maestro, dove “dimori?” (1, 38): Andrea e Giovanni non sono alla ricerca di un luogo, ma di una relazione, di qualcuno con cui rimanere, perché la vita abbia significato. Per i due discepoli l’incontro con Gesù è l’incontro con uno sguardo accogliente e la sequela di Gesù diviene la loro casa. La domanda che ci poniamo è: come trovare stabilità nel nostro cammino quotidiano? Come camminare nel ritmo frenetico delle nostre giornate rimanendo nella relazione con il Cristo? Il vangelo ci offre un percorso in tre tappe.
Prima tappa: Rimanere nella Parola. La Parola ci educa a rimanere nel progetto di Dio, a guardare noi stessi e l’altro non secondo il ruolo che il copione della vita ci chiede di assumere, ma come immagine e somiglianza di Dio. La Parola libera dall’ipocrisia perché toglie ogni maschera e svela il volto.
Seconda tappa: Rimanere in Gesù come i tralci nella vite (15, 1-16). Non sono le nostre mani che costruiscono un progetto. Il frutto rimane soltanto se è un frutto generato dal rimanere in Gesù: le nostre costruzioni si sbriciolano, vengono ingoiate dallo scorrere del tempo. Soltanto ciò che è generato “in Cristo, per Cristo e con Cristo” rimane per sempre.
Terza tappa: Rimanere nell’amore del Figlio. “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (15, 9). Ciò che dà direzione al fluire dei nostri giorni e dona stabilità alla nostra esistenza provvisoria è l’amore. Soltanto l’amore rimane: se i nostri giorni sono un progetto d’amore e le nostre costruzioni sono progetti di amore, rimarranno in eterno.
In questo brano del vangelo di Giovanni, Gesù si identifica con la vite, mentre i discepoli sono i tralci della stessa pianta. L’immagine è quella di un organismo vivente, in cui ogni parte vive grazie all’unità con ogni altra parte. Ai discepoli e alla chiesa tutta Gesù ricorda che “rimanere” è vivere ed è la condizione della fecondità. La fede credente è una fede operosa, impegnata; non possiamo però dimenticare che la sorgente di ogni azione umana è un amore che ci ha preceduto, l’amore del Padre. Senza la memoria di questo amore tutto diventa inutile: persino l’impegno per una società migliore diviene un attivismo senza cuore, che inaridisce la vita.
Radicata nell’amore, la chiesa diviene la presenza del Padre: come il Padre è stato glorificato dall’agire del Figlio, ora è glorificato dalle opere di chi rimane nel Figlio: “In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli” (v. 8). Quando è autentico, l’incontro con Dio produce frutti, proprio come accade al tralcio della vite. Sono i grappoli di uva il segno inequivocabile della sua vitalità. Sono i gesti, le parole, le scelte, gli atteggiamenti del cristiano la “prova” della sua relazione con il Signore Gesù.
Solo questa relazione trasforma la nostra fragilità e la nostra debolezza in un coraggio pieno di fiducia. Solo questa relazione ci permette di far fronte ai frangenti oscuri e drammatici senza venir meno, animati dalla speranza. Ma questa relazione è unica, di conseguenza, anche per quello che esige. Non può bastarle il pagamento di un pedaggio rituale, né una generica adesione, e neppure una serie di tradizioni che colorano alcuni tempi particolari. Si tratta di una relazione che investe cuore e intelletto, volontà e sentimento, atteggiamenti e scelte concrete.
Bibliografia consultata: Gatti, 2018; Laurita, 2018.
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