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Religione, chi si umilia sarà esaltato e chi si esalta sarà umiliato

Ancora una volta (Mt. 23, 1-12) ci troviamo nella problematica dialettica con gli scribi e i farisei, ma questa volta Gesù ammonisce i suoi discepoli e la folla su alcuni atteggiamenti ipocriti e falsi da evitare e ai quali non conformarsi. Siamo nel capitolo 23°, definito dagli studiosi come “guai”, un modo letterario già conosciuto nella letteratura profetica dell’Antico Testamento, soprattutto adottato dai profeti del tempo che precede l’esilio a Babilonia per proporre degli ammonimenti.

Nei primi dodici versetti i destinatari sono i discepoli e la folla (v. 1), ma dal versetto 13 Gesù si rivolgerà direttamente agli scribi e ai farisei rimproverandoli (“guai a voi”) dei loro comportamenti “ipocriti”. Nel nostro brano, invece, lo scopo è quello di evidenziare alcune dinamiche relazionali sbagliate, che non devono intaccare la vita della comunità dei credenti. Colpisce il tono duro con cui Gesù esprime i suoi ammonimenti, forse per riprendere il genere letterario della disputa, già presente in Mt. 22, ma più probabilmente per evidenziare la responsabilità che i destinatari (scribi e farisei) avevano, proprio perché esperti della Legge e della fede.

Comunque sia, è evidente che Gesù critichi l’atteggiamento e non il movimento farisaico in sé che, oltre ad aspetti negativi, presentava per la fede d’Israele un punto di riferimento importante. Infatti, la citazione della “cattedra di Mosè” (v. 2) ha un valore positivo: essi sono l’autorità riconosciuta e il loro insegnamento riguardo alla Legge non va disprezzato, per cui il loro ruolo in questo caso non è sminuito o denigrato. Il problema che viene sollevato è il loro atteggiamento: predicano bene, ma si comportano male. I farisei non sono ritenuti da Gesù degli impostori o maestri falsi, perché le cose che insegnano vanno osservate, ma è il loro modo di vivere che scredita la loro testimonianza. Essi pretendono dagli altri quello che non riescono a compiere nella loro vita. Non vivono secondo ciò che annunciano.

I limiti dell’azione di scribi e farisei

Quali sono i due limiti maggiori del loro agire? Il primo è l’ipocrisia. Si intende l’eccessivo rigore nell’osservare minuziosamente i precetti, facendone un assoluto, ma senza lasciarsi convertire il cuore dall’amore di Dio. Ciò avviene quando i mezzi si confondono con il fine: in questo caso un’osservanza esteriore e formale delle norme si sostituisce al fine per cui sono stati dati tali precetti, che è l’amore di Dio. Questa prassi rigorosa porta addirittura a una considerazione di sé tale da sostituirsi al Signore stesso nel giudizio verso il prossimo.

Il secondo grande limite è la vanità, la superbia, quella che papa Francesco chiama il pavoneggiarsi. Il rigore morale e formale porta a una ostentazione di sé e della propria vita, a presumere di farsi modelli irreprensibili senza diventare modelli nella testimonianza umile che lascia prima di tutto trasparire la centralità della grazia divina.

Da ciò tutte le pratiche ricordate da Gesù (vv. 5-7), l’ammirazione della gente, l’esibizione e lo sfoggio delle vesti (filatteri e frange), il compiacersi dei posti d’onore e dei saluti: sono tutti atteggiamenti che sottolineano tale autoaffermazione che diventa un ostacolo all’azione della grazia di Dio.

Uno solo è il maestro

La seconda parte del monito di Gesù (vv. 8-11) si caratterizza per le raccomandazioni del Signore: “ma voi non fatevi chiamare rabbì” (v. 8), cioè riconoscete la relatività della vostra persona. Uno solo è il maestro: è la decentrazione da sé, il porre Dio al centro della propria vita e di quella degli altri, è riconoscere che il perno fondamentale dell’esistenza è soltanto lui. Anche l’invito a non chiamare nessuno con l’appellativo di padre (v. 9) pone al centro dell’attenzione che solo Dio è davvero Padre; e ancora il divieto di apostrofare qualcuno come guida (v. 10), perché solo il Cristo è colui che conduce al Padre, gli altri al massimo sono tutti strumenti scelti perché siano corresponsabili di questo servizio.

Ed ecco la conclusione, il punto di arrivo di tutto il brano, l’insegnamento che ci consegna la giusta interpretazione dei precedenti due momenti della monizione di Gesù: “chi tra voi è più grande, sarà vostro servo” (v. 11), perché “chi invece si esalterà sarà umiliato”  e, viceversa, “chi si umilierà sarà esaltato” v. 12). L’umiltà come ingrediente fondamentale per la credibilità della testimonianza, non come virtù ricercata per se stessa, ma come vero e proprio stile di vita nella sequela dell’unico Maestro. L’umiltà è il frutto più importante del decentramento da sé ricordato poco prima e che permette di riconoscere come fondamento della propria stessa vita, di tutto ciò che si è e che si fa, Dio stesso.

Il servizio dell’umiltà

Anche in questo caso il Vangelo ci consegna alcune importanti indicazioni per il nostro cammino cristiano: nessuno è esente o immune dall’atteggiamento di vanità e di ipocrisia, che viene criticato nei confronti degli scribi e dei farisei; anzi, spesso anche nelle dinamiche delle nostre comunità e della vita stessa della Chiesa è possibile ammalarsi di quella patologia che papa Francesco ha definito come sentirsi indispensabili ed eterni, fino addirittura a sostituirsi alla stessa persona di Dio nei facili giudizi o nel pensarsi al di sopra degli altri. Invece Gesù, mettendoci in guardia da questi rischi possibili anche nella nostra vita cristiana, ci riporta alla centralità della nostra identità cristiana: il servizio nell’umiltà.

Bibliografia consultata: Corini, 2017.

Redazione

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