Il quinto segno (miracolo) compiuto da Gesù nel vangelo di Giovanni (9, 1-41) è la guarigione di un uomo cieco dalla nascita. La cecità è la sua condizione nativa. Gesù, passando, lo vede e inaspettatamente gli dona qualcosa che egli non ha chiesto: la vista. “Và a lavarti alla piscina di Siloe!” (v. 7), gli dice e poi scompare assieme ai discepoli. “Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva”. La narrazione potrebbe terminare qui, con la guarigione ottenuta.
E’ qui che inizia, invece, il faticoso cammino che conduce l’uomo a incontrare di nuovo Gesù, per vederlo e riconoscerlo come il Figlio dell’uomo. Tra il momento della guarigione fisica e l’incontro finale con Gesù il brano descrive l’itinerario che porta l’uomo a vederci davvero. Il Maestro fa del fango con la saliva e lo spalma sugli occhi del cieco: forse un gesto simbolico che reduplica la sua cecità. Egli è doppiamente cieco: non vede né con gli occhi della vista né con quelli della fede. Alla piscina di Siloe, che significa Inviato, l’uomo riacquista la vista, perché ha incontrato l’Inviato di Dio, Gesù di Nazaret; allora inizia il cammino che lo conduce a guadagnare uno sguardo di fede.
Anche i discepoli vedono il cieco e tentano d’interpretare la sua vicenda con una logica di tipo retributivo: “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” (v. 2). Fanno valere il “principio di causalità”: se quell’uomo si trova in quella situazione deve esserci un motivo. Gesù mostra uno sguardo diverso; non gli basta trovare la causa, egli cerca un fine: “E’ così perché in lui siano manifestate le opere di Dio” (v. 3). La sciagura del cieco concorrerà, paradossalmente, alla manifestazione della gloria di Dio, attestando che Gesù è la Luce.
Il racconto evidenzia anche la fiducia “cieca” dell’uomo, che obbedisce alla sua parola (v. 7). Questo è il presupposto perché egli torni a vedere. E’ un tratto peculiare dei “segni” (miracoli) giovannei: Gesù può operare soltanto se trova l’umile concorso degli uomini, che obbediscono coraggiosamente alla sua parola. Anche quest’uomo nato cieco guarisce per un atto di obbedienza alla parola di Gesù. E’ ciò che il Maestro ha richiesto poco prima, parlando ai giudei nel tempio durante la festa delle Capanne: l’invito di rimanere fedeli alla sua parola (8, 31-32).
Quest’uomo aderisce con tutto se stesso alla parola di Gesù e, affidandosi a lui incondizionatamente, inizia il suo cammino di liberazione che lo condurrà, poco per volta, a diventare discepolo e a trovare la vera libertà, anche se sarà estromesso dalla sinagoga (v. 34). Non appena guarito, l’uomo trova il coraggio di affrontare un vero e proprio processo, intentato ai danni di Gesù.
I discepoli scompaiono dalla scena, per lasciargli il posto; è lui che assume il ruolo del discepolo e, prendendo le parti del Maestro, matura una fede sempre più profonda: inizialmente, per lui, Gesù è soltanto un uomo (v. 11), poi un profeta (v. 17), quindi uno che onora Dio e fa la sua volontà (vv. 31-33) e infine il Figlio dell’uomo (v. 35-38). L’indole forense (di un processo) del racconto è evidente: Gesù è l’imputato in contumacia, i farisei sono gli accusatori; i genitori dell’uomo vengono convocati come testimoni e il cieco guarito è il difensore. La sua vicenda, per un verso, prefigura quella del Maestro che, di lì a poco, durante la passione sarà sottoposto a un duro processo e non desisterà dalla sua missione, rendendo testimonianza alla verità, fino al dono totale di sé. Per l’altro, essa anticipa ciò che accadrà dopo Pasqua, quando i discepoli saranno i testimoni di Gesù nel processo che il mondo intenterà contro di lui.
Dopo la guarigione, l’uomo incontra anzitutto i conoscenti; essi faticano a identificarlo (v. 8). Chi è stato guarito da Gesù è un uomo nuovo; occorre uno sguardo rinnovato per riconoscere la sua nuova identità. Il cammino del cieco è soltanto all’inizio: egli si limita a identificare un uomo di nome Gesù che l’ha guarito. Altro non sa! E’ decisivo che l’uomo riconosca la propria “ignoranza”; è esattamente ciò che non ammettono gli altri personaggi, che si vantano di sapere e non sanno, presumono di vedere e sono ciechi. Per questo Gesù afferma che la loro tenebra rimane. Se, per un verso, il cieco nato viene progressivamente alla luce, per altro verso, i suoi antagonisti dimostrano di amare più le tenebre che la luce.
Essi non sono disposti a rinunciare ai loro schemi mentali in cui non c’è posto per Gesù e la sua prassi “non convenzionale”: impastando del fango, egli ha guarito un uomo in giorno di sabato, ma ha compiuto un’azione illecita che infrange il riposo sabbatico. Se Gesù ha guarito il cieco, facendo un miracolo, è perché Dio glielo ha concesso; tuttavia ha infranto la Legge. Per loro è più ragionevole ritenere che l’uomo in questione non sia mai stato cieco o che Gesù sia un peccatore, perché ha infranto il sabato: “Sappiamo che a Mosè ha parlato Dio ma costui non sappiamo di dove sia” (v. 29).
Per vedere occorre riconoscere di essere ciechi e bisognosi della luce. Il racconto mette in scena un duplice capovolgimento: c’è chi passa dalla cecità alla visione e chi, da una presunta visione, precipita nella cecità. Nel primo caso il non-vedere è innocente; nel secondo colpevole, poiché è l’orgoglio di chi rigetta la Luce, pretendendo di vedere. Nella visione giovannea il mondo “originariamente” giace nella tenebra; la visita del Verbo-Luce apre all’umanità una possibilità di scelta: si può passare dalle tenebre alla luce e dalla morte alla vita, o rimanere colpevolmente nelle tenebre.
Bibliografia consultata: Rossi, 2020.
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