Religione, Dall’esperienza del Risorto alla fede
di Il capocordata
Nella seconda domenica di Pasqua ascolteremo il Vangelo (Gv. 20, 19-31) dell’apparizione del risorto all’incredulo Tommaso. Mettiamo in evidenza come un’idea principale costituisce la trama di tutto il capitolo 20: il passaggio, nella vita cristiana, dall’esperienza fisica alla fede spirituale. Il discepolo prediletto, l’apostolo Giovanni, crede vedendo il sudario e le bende; Maria Maddalena, quando la voce familiare del maestro pronuncia il suo nome; i discepoli, quando contemplano le mani e il costato del Cristo Signore; Tommaso, infine, fa una professione di fede veramente perfetta nel Cristo risorto quando gli è concesso di vedere le mani del Signore e di mettere la mano nel suo costato.
L’apparizione del Cristo risorto a Tommaso (vv. 24-29)
Nel vangelo di Giovanni, Tommaso è chiamato Didimo, gemello. Egli appare come un uomo tutto d'un pezzo, che giudica le cose secondo un suo modo di vedere e stenta ad entrare nel pensiero degli altri; facilmente impressionabile ma fondamentalmente generoso e leale verso il suo maestro. Il suo dubitare mette in luce la duplice natura, fisica e spirituale, del corpo del Cristo risorto e fa comprendere come si passi dall’esperienza fisica alla fede spirituale. Inoltre, l’evangelista ha in mente la condizione in cui si trovano coloro che, senza essere stati testimoni oculari della presenza corporea del Cristo, devono tuttavia credere il lui e vivere di lui.
Egli ricusa di credere alla testimonianza dei suoi fratelli; risponde anzi al loro entusiastico racconto con un freddo rifiuto: “Se non vedo…e non metto la mia mano nel suo costato, non credo” (v. 25). Si fiderà soltanto dell’evidenza dei propri sensi. Vuole verificare con i suoi occhi e toccare la realtà del corpo di Gesù risorto. “Otto giorni dopo… metti qua il tuo dito…la tua mano nel mio costato e non essere incredulo ma credente” (v. 27). Nella prima parte delle parole di Gesù affiora una condiscendenza quasi urtante verso Tommaso. Gesù accetta la prova a cui Tommaso annetteva tanta importanza: toccare per accertarsi che non si tratti di un essere immaginario ma di un corpo reale e vivo. La seconda parte, invece, contiene un rimprovero ben meritato. Tommaso deve diventare un vero credente nella realtà del Cristo risorto.
Allora Tommaso disse: “Signore mio e Dio mio” (v. 28). Questa fulgida confessione di fede cristiana, questa affermazione così densa dal punto di vista cristologico spunta sulle labbra dell’incredulo Tommaso dall’evidenza della risurrezione. Questa confessione di Tommaso è l’apice, il punto culminante di tutto il Vangelo di Giovanni, che su questa affermazione esso può concludersi e si conclude di fatto in bellezza. Tommaso esalta il Cristo, il Figlio, con gli stessi termini usati abitualmente dai giudei, gelosamente monoteisti, per onorare Dio.
“Perché mi hai veduto, tu hai creduto…Beati quelli che crederanno senza aver veduto” (v. 29). “Vedere” e “credere” per l’evangelista Giovanni sono due termini giustapposti, perché la fede cristiana nasce dalla vista, dall’incontro con l’esperienza del Cristo. Il punto di partenza del cristianesimo si trova in fatti storici che è stato possibile constatare, controllare, stabilire e dei quali alcuni testimoni scelti hanno reso testimonianza; il Cristo della fede cristiana implica e presuppone il Gesù della storia. L’evangelista tiene i piedi ben piantati nella storia, in una storia autenticata da testimoni. In lui, teologia e storia non si contraddicono, ma sono intrecciate l’una nell’altra. Teologo per temperamento, per vocazione e per l’azione dello Spirito santo, Giovanni affonda le sue radici nella storia.
“Beati quelli che credono senza aver veduto” (v. 29)
Al di là dell’apostolo Tommaso, si intravede la chiesa credente dei secoli futuri. La beatitudine, la felicità, la gioia sono promesse a tutti i credenti che non sono stati testimoni oculari dei fatti riportati, a tutti i cristiani che suppliranno con l’ardore della fede a ciò che loro manca di presenza visibile del Cristo. Tuttavia è possibile che Giovanni, scrivendo alla fine del primo secolo, pensi in modo speciale ai cristiani del suo tempo. Quando redigeva il suo vangelo, la chiesa era composta, in gran parte, di uomini e di donne che non erano stati testimoni delle apparizioni del Cristo glorioso, ma credevano nella sua presenza e la vivevano intensamente: viene espressa così ancora una volta la unità e la continuità tra Gesù di Nazaret, il Gesù della storia e il Cristo della prima comunità credente.
L’epilogo (conclusione) di tutto il vangelo (vv. 30-31)
“Molti altri prodigi…perché credendo abbiate la vita nel suo nome”: si tratta della conclusione di tutto il libro. Giovanni si rivolge a coloro che credono già nel Cristo ma che devono progredire sempre più in questa vita di fede. L’oggetto della fede cristiana è credere che Gesù è il Cristo, il messia promesso dalle Scritture e atteso da tutto l’A.T.; credere che egli è Figlio di Dio nel senso stretto che l’evangelista ha usato nel prologo (“e il Verbo era Dio”). Egli è veramente Dio, come l’apostolo Tommaso ha proclamato nell’episodio conclusivo del Vangelo: prologo ed epilogo sono uniti come due tavole di un dittico. Orbene, questa fede, che ha questo oggetto, è già la vita: una vita spirituale che, pur essendo realizzata fin d’ora, rimane tesa verso una perfezione sempre più grande, verso un radicamento sempre più forte nel Cristo; una vita presente nel Cristo e nello stesso tempo una vita finale anticipata, possesso attuale e insieme tensione verso l’avvenire definitivo. Con la lettura di questo racconto, la Chiesa invita anche noi a percorrere e a ripercorrere il cammino che dalla vista porta alla fede, dall’ascolto della Parola alla confessione della fede. Anche noi, spesso, conosciamo momenti di incredulità e di scetticismo; anche noi siamo continuamente alla ricerca di una evidenza e certezza assolute, senza possibilità di dubbio. Soprattutto perché per noi la presenza corporea del Cristo appartiene ad un passato molto remoto. Incamminiamoci in questo percorso per accrescere incessantemente la nostra fede nella presenza spirituale del Cristo in mezzo a noi.
Bibliografia consultata: Seynaeve, 1971.