Il brano (Gv. 3, 14-21) della IV domenica di Quaresima è parte del dialogo tra Gesù e Nicodemo. L’evangelista Giovanni non vuole tanto raccontare una storia, quanto invece coinvolgere il lettore portandolo ad “essere” Nicodemo, a porsi come lui una domanda essenziale: come è possibile questo? come può accadere nella mia vita? Il brano si caratterizza come un cammino dalle tenebre (“andò da Gesù di notte” v.2) alla luce (“chi fa la verità viene verso la luce” v. 21), scandito da tre domande di Nicodemo e da tre risposte di Gesù. E’ un cammino verso una nuova possibilità di vita data dalla “rivelazione dall’alto”, una rivelazione che ha un centro visibile: il Figlio innalzato, il nuovo segno della presenza di Dio verso cui alzare lo sguardo per essere guariti (cfr. v. 14).
Nicodemo è uno delle tante persone che , vedendo i segni che egli compiva, erano attratte da Gesù. Infatti, ha compreso che “nessuno può compiere questi segni che tu fai, se Dio non è con lui” (v. 2). Nicodemo è un uomo colpito dai segni (miracoli): ha visto, ma non è andato oltre “i segni”. Per questo si reca da Gesù non per seguirlo, ma per interrogarlo. E’ un uomo delle istituzioni, definito dal proprio ruolo di capo dei Giudei e fariseo.
E’ un uomo che vive di certezze basate sul sapere e sulle dottrine del proprio gruppo di appartenenza. Forse per questo si reca da Gesù “di notte”: la notte, nel vangelo di Giovanni, indica una situazione di conflitto, l’ora del tradimento e della paura. Nel dialogo con Nicodemo, essa indica ambiguità, il non volersi compromettere. Gesù lo raggiunge chiedendogli di cambiare prospettiva: da ciò che conosce a ciò che Dio vuole compiere in lui, una rinascita dall’alto.
“Se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio” (v. 3). Nicodemo interpreta questa nascita in senso materiale: “Come può un uomo nascere quando è vecchio?” (v. 4). Egli apprezza Gesù, ma non vuole uscire dai limiti rassicuranti della propria comprensione ed esperienza. Gesù gli dice che la “nuova nascita” viene “dallo Spirito” (v. 5): lo spinge, cioè, a uscire dalle proprie certezze, dalla sclerosi del proprio cuore per aprirsi alla novità di Dio. Davanti a questa affermazione di Gesù, Nicodemo pone finalmente una domanda vera: “Come può accadere questo?” (v. 9).
“Tu sei maestro d’Israele, (gli dice Gesù), e non conosci queste cose?” (v. 10). Le certezze di Nicodemo si infrangono e il tono del discorso cambia: dal sapere (cfr. v. 2) alla testimonianza. La novità è “l’innalzamento del Figlio”, la risposta paradossale di Dio alla domanda di salvezza dell’umanità: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (v. 14).
Che cosa vede uno sguardo credente guardando la croce? Un atto di amore: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (v. 16). L’evangelista ci offre così la chiave per comprendere il misterioso agire di Dio: la croce è un atto di amore, come verrà ribadito all’inizio del racconto della passione: “Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (13, 1).
Gesù sfida il Nicodemo che vive in noi, affermando che non esiste relazione autentica con Dio senza un passaggio dall’Io al Tu, da una vita centrata su noi stessi, sulle nostre certezze, all’imprevedibile di Dio. Nicodemo deve imparare che esiste soltanto un’unica via di salvezza, per lui come per gli altri: il senso che l’amore dà alla vita. Ciò che salva e permette di uscire dalle tenebre non è il proprio status di professionista della fede o di credente: la salvezza è nell’amore, l’amore accolto e l’amore donato.
Camminare dalle tenebre alla luce implica dunque sollevare lo sguardo alla croce, perché in Gesù innalzato sulla croce incontriamo l’amore di Dio. Implica lasciarci raggiungere da questo amore che non condanna, ma libera. Implica lasciare che questo amore ci guarisca, guarisca il nostro modo di concepire la relazione con noi stessi e con l’altro. Chiede, infine, di lasciare che la luce dell’amore entri nelle nostre tenebre e, come all’origine del creato, operi una distinzione, ci aiuti a discernere tra ciò che è vero, perché nasce dall’amore e testimonia amore, e ciò che è falso, perché crea divisione e odio.
Il tempo di Quaresima ci educa a contemplare la croce come albero di vita, come un legno spoglio di foglie e di frutti che però non è sterile, o morto, ma in cui esiste la vita. La passione e la morte di Gesù non sono un incidente di percorso da dimenticare rapidamente, ma la strada che Dio ha scelto per raggiungere ogni uomo e liberarlo dal male, per farlo entrare in una vita nuova. E’ questa croce il “caso serio” da cui non possiamo prescindere, il “passaggio ineluttabile” che rivela la nostra fedeltà a Cristo, la “prova” del nostro amore.
Bibliografia consultata: Gatti, 2018; Toffolon, 2018; Laurita, 2018.
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