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Religione, Dio non abbandona il suo servo

L’evangelista Matteo, con il racconto della passione e morte di Gesù (Mt. 26, 14 – 27, 66), vuole autenticare la vicenda di Gesù attestando che la sua passione non fu una sconfitta, ma il compimento del disegno di Dio. Egli mostra con la sua narrazione che la missione affidata a Gesù dal Padre coincise con il compito di rivelarsi Messia in quanto Figlio obbediente. Tale obbedienza lo portò sino alla morte: è consegnandosi ad essa che egli si rivelò Figlio al sommo grado.

Durante la sua passione Gesù è solo, come l’orante dei salmi nelle Scritture: abbandonato dagli amici, perseguitato dagli avversari, percepisce la lontananza di Dio, ma si rimette a lui in modo incondizionato, nella fiducia che Dio non abbandona il suo servo. Gesù si consegna alla morte, offrendo la sua vita a Dio e agli uomini.

Dal tradimento alla cena (26, 14-30).

Giuda, accordandosi con i sacerdoti, vende Gesù al prezzo di uno schiavo, trenta monete d’argento. E’ la somma irrisoria che i capi di Israele danno come ricompensa al profeta-pastore per liquidarlo del suo servizio in nome di Dio-Yhwh (Zc. 11, 12-13). I preparativi della cena pasquale mostrano, tuttavia, che non è Giuda a consegnare Gesù, ma è Gesù stesso che si incammina verso la sua passione con piena padronanza delle vicende: sa che il suo tempo è vicino e ordina ai discepoli di preparare la Pasqua.

Durante la cena è in grado di prevedere il tradimento di Giuda: dunque è padrone della situazione e la assume in piena libertà. Il tradimento di Giuda riecheggia implicitamente la situazione del salmista che lamenta l’infedeltà dell’amico: di fatto, colui che alza il piede contro Gesù è un amico che condivide il pane e con lui mette la mano nel piatto (Sal 41, 10).

A cena, identificando il suo corpo con il pane e il suo sangue con il vino, Gesù profetizza la morte imminente, interpretandola in termini sacrificali, come dono di sé per la remissione dei peccati, a vantaggio di tutti. Il sangue di Gesù è “sangue dell’alleanza”, cioè capace di ristabilire l’alleanza tra Dio e il suo popolo, includendo in essa ogni uomo. Gesù è il Servo che, sulla croce, giustificherà molti.

L’arresto sul monte degli Ulivi

Usciti dal cenacolo, Gesù e i suoi si recano sul monte degli Ulivi. Egli preannuncia il tradimento di tutti, compreso Pietro che si oppone risolutamente all’eventualità di un rinnegamento. “Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge”: evocando queste parole Gesù mette in chiaro che quanto sta per avvenire corrisponde alla volontà di Dio. E’ Lui che percuote il pastore e disperde il gregge, non perché abbia respinto Gesù come Figlio amato, ma perché appaia l’autenticità della sua fede e la sua figliolanza divina nelle vicende della passione.

Segue la scena della preghiera al Getsemani; è un momento fondamentale per cogliere l’obbedienza filiale di Gesù: egli passa da una resistenza iniziale al disegno divino alla piena sottomissione della propria volontà umana a quella del Padre. L’anima di Gesù è triste: il suo stato d’animo corrisponde a quello dell’orante che, minacciato e deriso dai nemici, si rivolge a Dio incoraggiando la sua anima a non temere (Sal 42 e 43). E’ nella relazione con Dio, chiamandolo “Padre mio”, che Gesù trova la forza di affrontare la prova, riconoscendosi Figlio.

Al Getsemani vengono a catturare Gesù come un brigante. Giuda si rivolge a lui chiamandolo “Maestro” e poi lo bacia. Un gesto d’intimità viene pervertito e diventa il suo contrario. Gesù risponde e lo chiama: “Amico, per questo sei qui!”. Di nuovo emerge un Gesù padrone di sé che sceglie di consegnarsi. Uno dei discepoli estrae la spada e mozza l’orecchio del servo del sommo sacerdote. Gesù interviene rifiutando la logica della violenza e il ricorso a ogni atto di potenza. La sua attitudine è ancora assimilabile a quella dell’orante dei salmi di supplica che rifiuta di reagire e confida in Dio. Mentre Gesù si consegna, trovano compimento le parole della Scrittura: effettivamente, percosso il pastore, tutti i discepoli lo abbandonano e fuggono.

Gesù davanti al sinedrio e a Pilato

Dinnanzi alle accuse Gesù tace come il Servo del Signore (Yhwh): è come agnello muto davanti ai tosatori. Il sommo sacerdote lo aggredisce, chiedendogli di dichiarare sotto giuramento se sia lui il Cristo, il Figlio di Dio. Con solennità Gesù risponde affermativamente: il suo dichiararsi Cristo, cioè Messia e Figlio di Dio, diventa il principale capo d’accusa contro di lui.

Durante il “processo romano” tutto ruota sulle sue rivendicazioni regali. Pilato dimostra di capire che Gesù non ha alcuna rivendicazione politica. Tenta allora di liberarlo, ma le autorità religiose sobillano la folla, affinché chieda la scarcerazione di Barabba al posto di Gesù. La sua innocenza è confermata anche dall’intervento della moglie di Pilato che, per via di un sogno, ella scoraggia il marito dal compromettersi nella condanna di Gesù. Pilato si lava le mani per declinare ogni colpa, costringendo il popolo ad assumersi la responsabilità della morte di Gesù.

La morte di Gesù

“Elì, Elì, lemà sabactàni,  Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Lungi dall’essere solo un grido di disperazione, esse rivelano l’intimo rapporto di Gesù con il Padre. Egli si sente realmente abbandonato da Dio nell’esperienza della morte, ma continua a invocarlo nella supplica, come l’orante dei salmi (22). Gesù continua a comportarsi da Figlio fin dentro la morte: invocando il Padre, egli muore da Figlio. A questo punto Gesù muore emettendo lo spirito, quasi come il Gesù nel vangelo di Giovanni (19, 30). Tutto si chiude con la sepoltura di Gesù a opera di Giuseppe di Arimatea. La pietra del sepolcro è sigillata e viene posto un corpo di guardia a presidiare la tomba. Tutto attende che il Padre risponda al grido del Figlio e gli riveli la sua benevolenza, rialzandolo dalla morte.                                                                                                                           

Bibliografia consultata: Rossi, 2020.

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