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Religione, Fanciulla, Io ti dico: Alzati!

Il brano del vangelo (Mc. 5, 21-43) che ascolteremo domenica XIII del tempo ordinario è uno dei più lunghi e articolati del vangelo di Marco. La trama si compone con due brevi storie non in successione, ma di cui una è contenuta all’interno dell’altra, come un rivelarsi progressivo del loro significato. Se, dopo la risurrezione, l’invito degli angeli a tornare in Galilea significa anche un invito a cogliere negli eventi vissuti là con Gesù gli inizi e le forme del mondo nuovo da lui inaugurato, i racconti della risurrezione della figlia di Giairo e della guarigione della donna emoroissa (che perdeva sangue) offrono un’occasione unica per questo tipo di approfondimento.

“Dodici anni”

“Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni” (v. 25); “E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni” (v. 42). I “dodici anni” rappresentano una ricca serie di parallelismi, che però non sono immediatamente visibili. Una notazione apparentemente superflua, alla fine, si rivela come una chiave che dischiude la loro profonda unità, e il loro cooperare a un significato sorprendente.

L’aggiungere che la bambina, morta e tornata in vita, ha dodici anni non influisce molto al livello del senso piano del racconto. Ma proprio quando ci si chiede il perché di tale informazione si scopre che anche l’altra donna era affetta da perdite di sangue “da dodici anni”, e così si nota la possibile presenza, tra loro, di destini paralleli. Dodici anni è l’età in cui una bambina diventa donna e acquista la possibilità di dare la vita: invece la fanciulla muore. Ma anche l’altra donna è virtualmente morta, incapace per la sua malattia di generare dei figli. Essa è totalmente anonima, non ha padre, non ha marito, conosce solo dei medici che la fanno inutilmente soffrire, peggiorando la sua situazione e dilapidando il suo patrimonio.

La presenza di Gesù fa sgorgare in lei un’altra sorgente, nuova e misteriosa, che la porta a contatto con la sua vita. Essa rinasce per aver toccato il mantello del Maestro (il mantello, segno della personalità e dell’autorità di qualcuno), e alla fine trova un nuovo padre, sconvolgendo tra l’altro la normale forza delle immagini: Gesù avrebbe potuto essere piuttosto suo fratello maggiore, lei non doveva essere molto più giovane di lui. Gesù la chiama “figlia”, riconoscendo quindi qualcosa della sua vita, come i figli sono la vita dei genitori, e nello stesso tempo attribuisce a lei, come cosa sua, quella fede che lei non avrebbe potuto vivere se non a partire dal farsi presente di Cristo. Vede in lei quella maturità che davvero la fa sorella di colui che le ha dato la vita: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Và in pace e sii guarita dal tuo male” (v. 34).

Quello che nella donna appare come nuovo, in qualche modo sorprendente, nel capo della sinagoga, il padre della bambina morta, è invece un atteggiamento a lungo vissuto, e Gesù lo sostiene e incoraggia, anche di fronte alla prova della morte ormai sopravvenuta: “Non temere, soltanto abbi fede!” (v. 36).

Gesù salvatore dei giudei e dei gentili

La menzione dei dodici anni in relazione alle donne suggerisce di vedere in esse altre dimensioni che le collegano l’una all’altra e insieme le distinguono. La menzione della malattia della prima donna, il ricorso ai medici, il peggioramento, contribuiscono a collocarla nella categoria delle persone affette da una irrimediabile impurità, a farne perciò un simbolo dei gentili. Essa si avvicina a Gesù di nascosto, fa fatica a svelarsi, e di nuovo scompare nell’anonimato. Ma nel frattempo è diventata “figlia” ed è stata salvata.

D’altra parte la bambina diventa simbolo del popolo eletto, la vergine Gerusalemme che all’alba della sua vita trova la morte, né vale a salvarla la dignità del padre. Solo la sua fede può ottenere da Gesù ciò che egli ha elargito con generosità alla emoroissa. Anche lui deve lasciare la propria fragile paternità nelle mani di colui che unico sa dare la vera vita.

I racconti delle due donne mostrano Gesù salvatore sia dei gentili che dei giudei. Se la morte era entrata nel mondo per invidia del diavolo (Sap. 2, 24), ora la vita ne rappresenta definitivamente la sconfitta per il dono di amore del Cristo. In questo modo la nativa bontà delle cose create viene salvata e avviata verso il compimento della gloria incorruttibile.

Gesù ha toccato il fondo della morte e con la sua risurrezione tocca ogni uomo, al fine di partecipargli la sua vita. Gesù vince la morte, ma ciò non significa che la morte si possa evitare. La fede fa percepire l’evento, sia pure drammatico, della morte come un cammino verso il Padre, reso possibile dalla morte e risurrezione di Gesù, nella forza dello Spirito della vita e dell’amore. Dio stesso, in Gesù, conferma la sua rivelazione di essere un Dio amante della vita.

La vittoria di Gesù sulla morte non è senza conseguenze per la vita dei cristiani. Per questa vittoria, infatti, i credenti in Cristo si qualificano come uomini e donne di speranza, che osano guardare oltre l’orizzonte della stessa morte, in vista di una pienezza di vita nella risurrezione. Essi traducono tale speranza in impegno per la vita, in servizio a tutte le forme di vita che sono uscite dalle mani del Creatore. I cristiani si impegnano a far riconoscere la vita come dono, come sommo bene, che richiama la libera responsabilità di ogni uomo nei suoi confronti. Tutto questo, però, non abilita i cristiani a ignorare la morte: “senza la morte la vita non meriterebbe di essere vissuta”, perché la vita e la morte diventano espressione di amore, di dono per gli altri.

Bibliografia consultata: Tosolini, 2018; Ancona, 2018.

Redazione

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