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Religione, Gesù chiamò i Dodici e li inviò

Il brano odierno (Mc. 6, 7-13) riporta la terza iniziativa di Gesù verso i suoi discepoli: l’invio in missione: “prese a mandarli a due a due” (v. 7). Uno sguardo al racconto precedente è di aiuto per una maggiore comprensione della missione che affida agli apostoli. L’invio dei discepoli risulta come una risposta di Cristo al rifiuto di cui è stato oggetto da parte di alcuni a Nazareth, una risposta che moltiplica in molti luoghi, attraverso molti messaggeri, gli effetti della Parola portata da lui solo e rifiutata in un luogo che rimane pur sempre unico, ancorché importante.

Il nostro brano si caratterizza per il susseguirsi di alcune serie verbali, “chiamò”, “prese a mandarli”, “dava loro potere”, “ordinò di non prendere, non portare”; e di alcuni elenchi che l’evangelista Marco giustappone, “un bastone, né pane, né sacca, né denaro, calzare i sandali e non portare due tuniche”, e che danno all’insieme il senso di una sintesi programmatica, sintesi che si dipana con ritmo incalzante, ma di grande intensità. L’ultimo verbo, “ordinò loro”, introduce qualcosa di nuovo, legato alla messa in atto dell’invio. Si noti che a questo punto del racconto non viene ancora detto quale sia lo scopo di tale invio. Si genera così un’attesa, che serve ad accrescere la percezione dell’importanza di tale scopo.

A questo punto segue una seconda serie, questa volta di negazioni: “non prendere” che un bastone e di calzare dei sandali per il viaggio: “né pane, né sacca, né denaro, non portare due tuniche” (v. 8). Si direbbe quasi che Gesù chieda ai Dodici di provvedersi solo di quanto serve loro per “andare”; non vuole che portino con sé quanto serve loro per “stare” in un luogo, nemmeno quanto serve al sostentamento fisico.

Le indicazioni di Gesù

Segue il discorso diretto di Gesù ai novelli missionari. Ci si aspetterebbe che Gesù dia loro delle indicazioni su cosa dire e fare, quali parole debbano usare per adempiere la missione loro affidata. Niente di tutto questo. Anche le parole riportate di Gesù si limitano a indicare delle modalità riguardanti il loro stare e il loro andare, quasi che egli attribuisca importanza decisiva non ai contenuti della loro predicazione, ma al loro comportamento, e questo non tanto in senso etico-morale, ma piuttosto in quanto essi rappresentano la presenza del loro Maestro, e alla loro accoglienza o rigetto, su cui si gioca il destino di coloro ai quali essi giungono.

“Dovunque entriate…rimanete…Se non vi accogliessero…andatevene…” (v. 10). Si prendono in considerazione i due possibili esiti della venuta dei discepoli in un luogo. Ma Gesù non dice quanto a lungo potrebbero rimanere, né cosa dovrebbero fare nei luoghi dove sono accolti. Sembra che questo sia l’ultimo problema, forse perché in quel momento, data la consuetudine dei gesti e delle parole di Gesù, la risposta sarebbe stata ovvia. Invece Gesù parla chiaramente del senso dello scuotere la polvere da sotto i piedi: è una testimonianza, forse l’ultima, ma non necessariamente contro coloro che rifiutano.

La missione dei discepoli

“Ed essi, partiti, proclamarono…” (vv. 12-13). I discepoli partono, proclamano la Parola, così che la gente si converta, scacciano molti demoni, ungono con olio molti malati e li guariscono. E’ solo alla fine che si può conoscere in qualche modo il contenuto della predicazione, l’unico atto di parola narrato. I discepoli proclamano: ma Marco tace l’oggetto della proclamazione, dice solo lo scopo inteso: affinché la gente si converta.

E’ curiosa questa missione, in cui sia nelle istruzioni del Maestro e sia nel racconto del suo svolgimento non si sa il contenuto dell’annuncio dei discepoli, ma si sanno solo gli effetti della loro presenza e azione: conversioni, cacciata dei demoni e guarigioni. In questo modo l’evangelista dipinge una missione di fatti, l’estendersi di un nuovo mondo di relazioni, nel quale l’unica sorgente di parole è la bocca del Maestro, l’unica sorgente di forza per vincere il male e le malattie è la sua decisione di inviare, le sue istruzioni ai missionari.

A prima vista può sembrare che tutto ciò mortifichi la creatività degli inviati. Invece, riflettendo più a fondo, si scopre che l’evangelista Marco vuol far cogliere quale sia la partecipazione degli uomini all’opera di Dio, a quali condizioni essi collaborino in modo utile a essa e non le siano di inciampo. Il contributo da offrire sta proprio in quella obbedienza itinerante che i discepoli sono chiamati a vivere, alla stregua del profeta Amos (cfr. prima lettura).  

Amos deve andare a Betel e profetare, e deve anche andar via da quel luogo, scacciato dal sacerdote Amasia. Ma la parola che Amos trasmette rimane: così è e può essere della itineranza obbediente dei discepoli di Cristo. Su di essa splende la potenza della parola del Signore, attraverso di essa viene comunicata quella benedizione spirituale che fa assaporare ai credenti la pienezza dell’appartenenza a Cristo, colui nel quale ogni essere trova il suo capo, il suo senso infinito.

Ancora oggi il Signore esige dai suoi discepoli lo stesso stile, un comportamento identico. E quando nella predicazione del Vangelo ci attardiamo a procurarci mezzi sofisticati e costosi, quando ci affanniamo a dotarci di consensi, di appoggi, di sostegni, tu, Signore, destini tranquillamente al fallimento tante preoccupazioni inutili. Grazie, Gesù, perché tu rimani accanto agli operai del Vangelo che si affidano a te e rendi fecondo il loro annuncio.                                                                         

Bibliografia consultata: Tosolini, 2018; Laurita, 2018.       

Redazione

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