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Religione, Gesù venne nella sua patria

Il brano di questa domenica 14^ del Tempo ordinario (Mc. 6, 1-6) si colloca verso la conclusione dell’attività di Gesù, da cui scaturisce la domanda su chi sia Gesù, volta a esplorare l’identità del Maestro di Nazareth. Di Nazareth? Nel nostro testo l’evangelista Marco mostra che questa qualifica fa problema. Già all’inizio del suo Vangelo, Marco aveva presentato Gesù che chiamava i primi discepoli, e che insegnava nella sinagoga di Cafarnao, scacciando demoni e compiendo guarigioni miracolose. Ora Gesù entra nella sinagoga di Nazareth, la sua patria, e insegna. Ci si aspetterebbe un ingresso trionfale, un corteo osannante che gli fa corona, lo applaude, lo loda e onora.

Niente di tutto questo. Molti, come giudici severi, sono presi da stupore alla scoperta delle insospettate qualità del loro compaesano. Come in una istruttoria mettono insieme i dati a loro disposizione. Confrontano la sorprendente esperienza presente con quanto sanno di lui: una conoscenza che ritengono essere completa. “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sua mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria…?” (vv. 2-3). Ed ecco allora la domanda: da dove gli viene tutto questo? Chi gli ha dato una tale sapienza, una tale potenza di operare miracoli?

Dalla sorpresa allo scandalo

Ed era per loro motivo di scandalo” (v. 3). Proprio perché ritengono di sapere tutto delle sue origini, non riescono a immaginare un’altra fonte di quanto Gesù mostra di conoscere come maestro e di poter compiere come taumaturgo. Per cui passano dalla sorpresa allo scandalo: da una reazione in qualche modo aperta a una di chiusura, a un giudizio negativo, di rifiuto. Ritengono che non ci possa essere Dio dietro quanto Gesù fa vedere di sé. L’evangelista Marco non scende nei particolari e non dice in quale modo tale atteggiamento di rifiuto si sia concretizzato. Lascia le cose in una indeterminatezza che però, dopo gli altri atteggiamenti di rifiuto da parte dei farisei, è già molto significativa.

“Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua” (v. 4). Il commento di Gesù qualifica ulteriormente la reazione della gente: dice di essere “disprezzato” (disonorato). Inserito in questo contesto, il termine fa presentire il rifiuto che Gesù subirà da tutto Israele. A Nazareth si riscontra semplicemente un ostracismo; a Gerusalemme, dopo l’ingresso trionfale, vi sarà la condanna a morte, un rifiuto totale e senza appello. Con la sua affermazione Gesù si definisce “profeta”, ponendo così con chiarezza in Dio l’origine della sua missione. Non solo, ma accentua la illogicità dello scandalo dei molti di Nazareth: egli si dice disprezzato, svalutato e negato con derisione in tutto il suo progetto, proprio da ciò che gli è più intimo: la sua patria, i suoi parenti, la sua casa.

Notiamo il gioco sottile sul significato dell’aggettivo possessivo “suo”: non semplicemente segnala che egli appartiene a queste realtà, ma anche insinua che patria, parenti e casa gli appartengono, in quanto della “stirpe di David”, e quelli di Nazareth dovrebbero essere i primi a saperlo. Forse per questo si sono dimenticati di citare Giuseppe come suo padre, contro l’uso di identificare i figli attraverso l’ascendenza paterna.

Gesù, pietra d’inciampo

“E si meravigliava della loro incredulità” (v. 6). Quasi specularmente rispetto allo stupore dei Nazaretani, Gesù si meraviglia dell’incredulità di alcuni. Segno questo che si aspettava un’accoglienza positiva, corrispondente ai segni che compiva in tutta la Galilea. La reazione negativa dei compaesani è una scelta perdente. Infatti, Gesù si presenta accompagnato dai discepoli, come un Rabbì riconosciuto. Poi, egli insegna e opera guarigioni anche a Nazareth. Questo fatto serve da prova della provenienza divina della sua missione e della sua persona. Infine, come non ci sono solo degli scandalizzati, così anche Nazareth, e per estensione Gerusalemme e Israele, non sono tutto il mondo. Ci sono anche i villaggi vicini, c’è la Galilea, c’è il mondo intero.

L’accoglienza che Gesù ottiene in molti luoghi e tra molte persone, anche se non sono i luoghi e le persone dove sarebbe più logico che egli trovasse consenso, testimoniano a suo favore e confutano coloro che si scandalizzano di lui. Questi riscontri positivi smentiscono la pretesa assolutezza e poi la verità del rifiuto, dello scandalo. Paradossalmente, proprio perché pietra di contraddizione, Cristo si impone. Non si può più non farci caso, come se la pietra angolare in Sion non fosse stata posta. Su di essa si può inciampare scandalizzandosi e si può costruire, o meglio, essere costruiti credendo. E più alta cresce la costruzione, più l’inciamparvi diventa rovinoso: “Sapranno che un profeta si trova in mezzo a loro” (la prima lettura). E continua a trasmettere Dio.

Il mistero del male, l’opposizione e l’incomprensione non devono irretire l’impegno del “profeta”: nel progetto di Dio il discepolo assume il ruolo di “essere segno” di un amore continuo, di una cura che non si lascia imprigionare dal consenso, che non si misura sulla risposta. Dio non vuole forzare l’uomo in ciò che lo rende unico e irripetibile: la sua libertà. Dio vuole essere amato liberamente. Si ferma in attesa di un “sì”: A questa libertà ho sacrificato tutto, dice Dio, al gusto che ho di essere amato da uomini liberi, liberamente (Peguy). Gesù non forza la nostra libertà, ma continua a incrociare le vie degli uomini perché il nostro rifiuto diventi “liberamente” un “sì”.

Bibliografia consultata: Tosolini, 2018; Prato. 2018.

Redazione

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