Il vangelo di questa domenica (Gv. 20, 19-31) ci riporta al giorno di Pasqua, perché continua il percorso narrativo che abbiamo iniziato nella solennità pasquale. Possiamo facilmente dividere il brano in due parti e una conclusione: apparizione nel giorno di Pasqua, il cammino di Tommaso e riflessione conclusiva del vangelo.
Apparizione nel giorno di Pasqua, assente Tommaso (vv. 19-23)
“La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!” (v. 19). Sembra strano che dopo il ritorno di Pietro e del discepolo che ha “visto e creduto”, e soprattutto dopo l’annuncio gioioso della Maddalena, le porte continuassero ad essere “sbarrate” per timore dei Giudei. Pur essendo insieme, convocati dall’annuncio pasquale di Maria Maddalena, la comunità vive ancora nella notte della paura e del dubbio, nella notte dell’assenza di Gesù, rimane chiusa in un’esperienza di morte.
Come loro anche noi crediamo, ma la nostra fede non spalanca orizzonti di libertà, non libera dalla paura della morte. E proprio in questa realtà il Risorto si rende presente: Gesù incontra i discepoli dove sono, attraverso le loro porte sprangate e appare nel loro buio. Si introduce nella loro paura e li incontra nel grido inconsapevole del loro cuore, come aveva incontrato la Maddalena nella sua disperazione e i due discepoli di Emmaus nella loro delusione. La prima buona notizia del brano di oggi è dunque che non esiste situazione umana in cui il Risorto non possa incontrarci: c’è un’alba di risurrezione in ogni esperienza di buio, di paura, di croce, di morte e di sepoltura.
“Pace a voi” (v. 19). La venuta del Risorto, l’irrompere della luce nel buio delle nostre stanze serrate, porta un dono: la pace, la sua pace! La pace del Cristo non tutela dalla prova e non costituisce una protezione contro la sofferenza. La pace dona di abitare la sofferenza nella certezza che la risurrezione del Cristo è il nostro presente. Per questo il Risorto mostra le mani trapassate dai chiodi e il costato ferito dalla lancia. In questo modo il Signore non solo vuol farsi riconoscere dai discepoli, ma soprattutto vuol dare un segnale per guidare a comprendere il significato della morte e risurrezione del Signore e della missione affidata a loro. Le ferite sono segni di un amore che non conosce limiti e di una presenza che trascende la morte: i segni di violenza sono divenuti segni di vittoria, della vittoria che ha sconfitto il mondo.
La reazione dei discepoli è la gioia: “I discepoli gioirono nel vedere il Signore” (v. 20). E’ il vedere credente: i discepoli non vedono soltanto Gesù, il Maestro con cui avevano percorso le strade della Galilea, essi vedono il Signore e a lui aderiscono nella fede.
“Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (v. 21). La gioia e l’adesione della fede non sono mai fine a se stesse; ogni dono è per la missione, perché la fede non donata si atrofizza e muore. L’invio dei discepoli è in continuazione con la missione di Gesù ed è il compimento della sua preghiera al Padre. Perché ciò accada, Gesù dona lo Spirito: “Ricevete lo Spirito Santo” (v. 21). Lo stesso Spirito (“emisit Spiritum”) che il crocifisso morente aveva alitato sulla piccola comunità radunata ai piedi della croce è ora soffiato sulla comunità dei discepoli. Lo Spirito crea una comunione profonda tra il Risorto e i suoi, segnata dalla condivisione del suo dono: “il perdono”. I discepoli del Crocifisso-Risorto sono inviati per immergere l’umanità nel perdono del Padre. La salvezza deve raggiungere i confini del mondo, perché ogni creatura possa credere che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbia la vita nel suo nome.
Il cammino di Tommaso (vv. 24-31)
“Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù” (v. 24). Gli apostoli sperimentano da subito la difficoltà della missione quando testimonia l’incontro con il Risorto a uno di loro: Tommaso, detto Didimo. Il termine “Dìdimos” letteralmente significa “doppio”: forse indica una sorta di ambivalenza presente nell’apostolo. Tommaso non aveva creduto all’annuncio di Maria Maddalena e non crede alla testimonianza della comunità. Esige una prova tangibile: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (v. 25).
Otto giorni dopo, anche Tommaso si trova insieme agli altri. Gesù entra e dona nuovamente la sua pace. Subito raggiunge Tommaso dove si trova, accettando il suo bisogno di toccare, di avere prove tangibili. Insieme, tuttavia, lo sfida a percorrere un cammino di conversione da non credente a credente: “Metti qui il tuo dito…tendi la tua mano… e non essere incredulo, ma credente!” (v. 27). Che cosa accade nel cuore di Tommaso? Non sappiamo neppure se abbia toccato o meno i segni della passione. Sappiamo però che, penetrato dallo sguardo del Crocifisso-Risorto, rivelato a se stesso e interpellato dalla sua Parola, anche Tommaso “vede” e proclama la sua fede con una delle espressioni più belle e profonde del Nuovo Testamento: “Mio Signore e mio Dio” (v. 28).
“Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” (v. 29). Le ultime parole del Risorto sono rivolte a noi, a tutte le generazioni che non hanno toccato il Gesù storico, non lo hanno seguito, non erano presenti alla sua morte e non hanno mangiato con lui dopo la risurrezione. Per tutti noi è possibile vivere la stessa esperienza della comunità delle origini credendo alla Parola, accogliendo la testimonianza di Maria Maddalena, di Giovanni, dei 10 e ripetendo la confessione di Tommaso.
Bibliografia consultata: Gatti, 2018.
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