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Religione, Il Buon Pastore e il suo gregge

La quarta domenica di Pasqua è caratterizzata dalla figura del Buon Pastore, delineata dall’evangelista Giovanni con una similitudine (parabola: Gv. 1-5) che contiene tre idee centrali: la “porta”, il “pastore”, le “pecore”. La prima parte della spiegazione parla  di Gesù come la“porta” dell’ovile delle pecore (vv. 7-10), la seconda di Gesù come il “buon pastore” (vv. 11-18). La terza parte (Gv. 10, 27-30) concernente le “pecore” giunge soltanto dopo l’interrogazione dei giudei, ansiosi di sapere se Gesù sia il Cristo. Inserendo questa domanda nella spiegazione della parabola, l’evangelista sottolinea il significato del discorso: il Buon Pastore è il messia. L’atteggiamento delle pecore verso il pastore è quello dei credenti di fronte all’inviato di Dio.

L’atteggiamento delle pecore davanti al pastore (vv. 27-28)

Questo brano contiene tre affermazioni sulle pecore, a cui ne corrispondono altrettante sul pastore: le pecore ascoltano la voce del Cristo ed Egli le conosce; lo seguono ed Egli dona loro la vita eterna; non periranno mai e nessuno le strapperà dalle sue mani. L’atteggiamento delle pecore e quello del pastore fanno risaltare chi siano le pecore nel pensiero di Gesù e perché le designi con questo nome. “Le mie pecore ascoltano la mia voce” (v. 27). Ascoltare è molto di più della semplice audizione della parola: è l’atteggiamento fondamentale del credente di fronte al Cristo. Ascoltare significa credere, credere alla Parola, al Logos. E poiché egli è anche Vita, ascoltarlo significa ricevere la vita. Chi ascolta la voce del Cristo, dimostra di appartenere al gregge di Cristo.

Se le pecore ascoltano e comprendono, il Cristo da parte sua le “conosce”: questi due atteggiamenti si corrispondono. Come le pecore percepiscono molto di più di un semplice suono della voce, così Gesù, conoscendole, non esercita innanzitutto un’attività intellettuale. “Conoscere” è una relazione reciproca ed esprime l’unità profonda di due persone che si amano. Ascoltare e conoscere si corrispondono e si riferiscono alla persona nella sua completezza.

“Mi seguono” (v. 27): chi ascolta non rimane senza frutto; ascoltare implica l’azione. Ascoltando, l’uomo ha già dimostrato la sua fiducia nella Parola; poi, esaltando al massimo questa sua fiducia, egli è pronto a tutto e a dire: “ti seguirò dovunque andrai”. Questa fiducia illimitata porta alla salvezza: Gesù è la vita e, in quanto Buon Pastore, dà la vita per le sue pecore, affinché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza, cioè la vita eterna. Solo Gesù ha parole di vita eterna, per questo le sue pecore “non periranno mai” (v. 28). Il Figlio ha ricevuto dal Padre la missione di non lasciare andare perduto nulla di ciò che gli ha affidato. “Nessuno le strapperà dalla mia mano”: mentre il mercenario abbandona le pecore al primo accenno di pericolo e così il lupo può “strapparle”, “rapirle”; in mano a Gesù, Buon Pastore, il gregge gode di assoluta sicurezza.

Dunque, le pecore del Cristo sono coloro che ascoltano la sua voce, che lo seguono e ottengono la vita eterna. Sono i credenti: quelli che camminano nella verità e nella luce. Ma non dobbiamo identificarli troppo in fretta con la chiesa, anche se è compito perenne della chiesa rendersi gregge del Pastore, ascoltandone la parola. Gesù chiama i fedeli col nome di pecore seguendo la tradizione dell’A.T.: in questo Giovanni e i sinottici (Matteo, Marco e Luca) concordano. Si esige quindi da loro un atteggiamento di umile dipendenza e li si aiuta a prendere coscienza della loro debolezza. Nulla l’uomo può fare od ottenere senza l’aiuto del Cristo. Il Signore manda i suoi “come pecore in mezzo ai lupi”, dopo averli cercati come pecore smarrite. Egli è il pastore in quanto è messia, venuto non per spadroneggiare, ma per servire. Mosso dall’amore, egli si consacra al gregge e lo conduce alla vita eterna.

La grandezza del Padre (v. 29)

La sicurezza di cui godono le pecore vicino al Pastore è incrollabile perché garantita dal Padre stesso. Il gregge che il Buon Pastore ha ricevuto è il dono incomparabile, più grande di ogni altro, che il Padre abbia trasmesso al Figlio con pieno potere; egli non cessa di vigilare sulle pecore affidate al Figlio. Esse sono dunque assolutamente al sicuro nelle mani del Figlio, poiché il Figlio dipende totalmente dal Padre, da cui ha ricevuto potere e autorità. Il Padre, infatti, è il più grande, come possiamo dedurre dal fatto che le abbia affidate al Figlio con piena autorità.

Una cosa sola con il Padre (v. 30)

“Io e il Padre siamo una cosa sola”: nessuno può strappare le pecore dalla mano del Cristo, perché nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Esse godono di uguale sicurezza sia con l’uno che con l’altro, perché il Padre e il Figlio agiscono in forza del medesimo potere. Nel pensiero di Giovanni, l’unità dell’azione suppone l’unità dell’essere: attraverso la comprensione dell’opera messianica si raggiunge la condizione divina. I giudei afferrano immediatamente ciò che Gesù vuol dire: egli parla di un’unità con Dio, che non è soltanto un’unità morale a cui può aspirare ogni profeta, ogni uomo di Dio. Raccolgono pietre per lapidarlo, poiché nelle sue parole colgono una bestemmia: egli si fa Dio.

Conclusione

Colui che appartiene al gregge di Cristo ascolta la sua voce, segue con fiducia il Pastore che lo conosce, perché un vincolo d’amore li unisce tra loro e con il Padre. Quando la Parola riceve ascolto, non rimane lettera morta, ma spinge all’azione il credente, che si abbandona fiducioso al Pastore che l’ha pronunciata. Il Cristo dona al fedele la vita eterna. Il Pastore mette a repentaglio la propria vita per la sicurezza delle pecore che il Padre gli ha affidato.                      

Bibliografia consultata: Stemberger, 1970.

Redazione

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