Il capitolo 15 di Luca riporta le tre parabole di Gesù in risposta ai farisei e agli scribi, scandalizzati del fatto che egli accolga i peccatori e mangi con loro, attingendo alla medesima fonte di vita. La comunione nel mangiare è espressione della comunione del vivere. Per questi essi mormorano contro di lui: lo accusano, perché non sopportano che egli infranga quei tabù cultuali che prevedono una rigida separazione tra ciò che è santo e ciò che è contaminato dal peccato.
“Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo” (v. 1). La cornice dei primi versetti già mostra un paradosso: quanti sono considerati “lontani”, pubblicani e peccatori, si avvicinano a Gesù. Conoscendo la notte del male e la profonda umiliazione che il peccato provoca nell’uomo, sono i più disponibili ad ascoltarlo, giacché per avvicinarsi bisogna sentirsi lontani. Al contrario, farisei e scribi vivono prigionieri di una falsa religiosità: perseguendo la propria volontà, sono convinti di seguire quella di Dio e giudicano gli altri secondo la loro presunta perfezione.
Mentre i farisei e gli scribi intendono la giustizia come separazione, Gesù la interpreta come vicinanza e prossimità all’uomo peccatore, espressione della misericordia del Padre. Raccontando queste tre parabole, Gesù non illustra la misericordia di Dio in generale, ma difende, dinanzi ai farisei e agli scribi, la sua prassi scandalosa di accoglienza dei peccatori, attraverso cui vuol rivelare il volto del Padre, dicendo che egli fa festa quando può perdonare qualcuno. Le prime due parabole preparano quella del padre misericordioso: un pastore che perde una pecora nel deserto e una donna che smarrisce una moneta in casa.
Anzitutto c’è un padre che perde il figlio minore; che, chiedendo l’eredità, è come se facesse morire il padre anzitempo, affermando che da lui vuole il suo denaro, non la sua sapienza, il suo affetto. Il padre non rifiuta la richiesta del figlio e accetta questa morte, concedendogli la sua eredità. Alla fine non resteranno neppure le sostanze: sperperando l’eredità, egli estinguerà anche l’ultimo legame che lo tiene unito al padre. Alla fine si ritroverà a dover pascolare i porci per sopravvivere! Il peccato ha portato il giovane a non vedere più la relazione col padre nella verità: questi è diventato uno di cui sbarazzarsi, vissuto come antagonista che impedisce la sua libertà e autorealizzazione.
Una questione fondamentale tematizzata dalla parabola è quella dell’immagine di Dio: quando lo sguardo dell’uomo si sporca e vede un Dio antagonista e rivale, cercherà in tutti i modi di fuggire da lui, perché egli diventa un impedimento alla propria realizzazione. Il desiderio di realizzarsi lontano dal padre nel possesso delle proprie sostanze è il ripetersi del dramma del peccato delle origini: l’uomo sceglie se stesso come epicentro della propria esistenza, illudendosi di trovare libertà e vita con le proprie mani, anziché nella relazione con Dio.
E’ interessante notare l’attualità del paradigma culturale sotteso alla parabola: l’uomo della modernità è simile al figlio prodigo; stanco di un Dio percepito come padre-padrone, sbatte la porta e va per la sua strada, cercando di realizzarsi lontano, secondo la propria volontà.
Il figlio minore deve toccare il fondo per riconoscere che suo padre non è un padrone; decide allora di tornare a casa, perché lì anche i servi stanno meglio di lui. Questo figlio riconosce che ha peccato, ma ancora non capisce chi sia suo padre. E’ incapace di uscire dai confini del proprio io per entrare in un’autentica relazione di amore con il padre. Egli ha quella mentalità religiosa di chi non ha ancora incontrato la gratuità dell’amore di Dio e si pente con la forza dei propri pensieri devoti, non dinanzi al volto del padre.
Eppure il padre si accontenta di questo ritorno determinato dall’interesse. Lo vede da lontano: ciò significa che non ha rinunciato ad attendere il figlio. Continua ad aspettarlo e a guardare per vedere se torna. Senza parole e sconvolto fin dentro le viscere, gli corre incontro, gli impedisce di gettarsi ai suoi piedi e, prima ancora che il figlio parli, gli dice con i gesti che lo ama e che non ha mai smesso di considerarlo come figlio. E dice ai servi: “Presto! Portate il vestito più bello!” (v. 22). Il vestito bello che dice l’elezione paterna, l’anello al dito con il sigillo di famiglia, i calzari ai piedi perché non è un servo. Dinanzi a lui il figlio minore guarisce dal senso di colpa e fa esperienza del perdono di Dio, cioè della Pasqua, perché “era morto ed è tornato in vita” (v. 24).
Questa esperienza della gratuità dell’amore misericordioso del padre è ciò che manca al figlio maggiore: egli è il figlio per bene, l’alter ego (come) di farisei e scribi. Anch’egli è un figlio mancato: pur essendo sempre stato nella casa paterna, neppure lui ha mai capito il cuore del padre. Non ha mai capito niente del padre, perché si è sempre comportato da servo: “Io ti servo da tanti anni” (v. 29). E’ il prototipo del “credente ateo” che fa le cose di Dio senza Dio. Considera il padre come uno che non gli ha permesso di vivere felice. Per questo si rifiuta di fare festa e di entrare nella gioia: quando si è figli mancati si è anche fratelli mancati. Ma il padre, ancora una volta, esce e gli va incontro per strapparlo alla sua chiusura, supplicandolo di entrare. Il padre non smette di essere padre e ama sia chi ritorna e sia chi non è capace di tornare.
Bibliografia consultata: Rossi, 2019.
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