Religione, il Padre è più grande di tutti
di Il capocordata
In questa domenica che precede l’Ascensione, la liturgia ci propone la lettura di alcune parole d’addio di Gesù nell’ultima cena (Gv. 14, 23-29). Il maestro spiega che la sua scomparsa agli sguardi dei suoi è la condizione della sua presenza permanente e vivificante presso quelli che credono in lui “senza vedere”.
La venuta divina promessa ai credenti (vv. 23-26)
Gesù ha invitato i suoi discepoli a non turbarsi alla prospettiva della sua dipartita: il Padre manderà loro per assisterli un altro “Difensore” nella persona dello Spirito santo; lui stesso, Gesù, ritornerà in mezzo a loro, invisibile al mondo ma visibile a quelli che credono. Giuda Taddeo si fa interprete della meraviglia di tutti i discepoli: “Signore, com’è che ti manifesterai a noi e non al mondo?” (v. 22). Egli immagina una manifestazione percettibile ai sensi; non ha compreso che la venuta dello Spirito e di Gesù sono conosciute solo nella fede. “Se qualcuno mi ama…io e il Padre dimoreremo presso di lui” (v. 23). A prima vista, la risposta di Gesù sembra ignorare la domanda e la meraviglia dell’apostolo. In realtà, vi risponde direttamente, poiché annuncia la manifestazione del suo mistero e il motivo per cui è inaccessibile al mondo. Gesù parla unicamente della venuta di Dio nella chiesa e nel tempo. Per accogliere Dio, è necessario ricevere la sua parola nella fede e rispondere con l’amore. Tutta la tradizione biblica lo afferma: la conoscenza di Dio è relazione personale, intimità, amore. I discepoli sanno che amare Gesù significa innanzi tutto “osservare la sua parola”, cioè riconoscere nel suo messaggio le esigenze e i doni dell’amore divino, e rispondervi con l’impegno realistico e generoso di tutta la vita.
A chi lo ama così, Gesù fa la promessa più straordinaria: annuncia loro l’amore del Padre e il suo dono meraviglioso: insieme al Figlio, il Padre in persona verrà presso il fedele, e prenderanno dimora in lui come nel loro tempio. Gesù promette ai suoi, fin da questo mondo, una comunione personale con Dio nel più profondo della sua vita trinitaria. La venuta che Gesù annuncia supera tutti i sogni del giudaismo, tutte le speranze dei profeti: è la presenza divina immediata nell’intimità e nell’amore, la promessa suprema del Vangelo.
La venuta invisibile della Trinità, annunciata da Gesù a quelli che lo amano, in realtà rimane inaccessibile a coloro che gli ricusano il loro amore (v. 24). Essi non “conoscono” (non amano) Gesù, poiché rifiutano il suo messaggio. Non possono “conoscere” il Padre che è la fonte di questo messaggio. Gesù, in questo senso, si “manifesta” solo ai credenti. C’è stato un periodo in cui Gesù era presente visibilmente ai suoi; ma questo periodo ora si chiude, e la Pasqua inaugura un tempo nuovo in cui i rapporti tra il maestro e i suoi cambiano. La tradizione delle parole di Gesù durante la sua vita temporale rimane e darà origine ai vangeli, ma sarà totalmente rinnovata.
Nella chiesa, infatti, questa tradizione non è un deposito morto, una collezione di parole fossilizzate: essa viene trasmessa dallo Spirito santo (v. 26). E lo Spirito è dato ai discepoli nel giorno di Pasqua, soprattutto per “ricordare” loro il messaggio. Non si tratta evidentemente di semplice memorizzazione della mente ma di una memoria del cuore, come suggerisce anche il termine “ricordare”: Giovanni, nel suo Vangelo, due volte osserva che i discepoli hanno compreso il significato delle parole e dei gesti di Gesù solo “ricordandoli” alla luce della Pasqua, cioè sotto l’ispirazione dello Spirito che li aiuta a coglierne finalmente tutta la profondità. Ora Gesù afferma che il Padre manderà lo Spirito santo nel suo nome: le tre persone divine sono presenti ai credenti; concorrono ad un medesimo fine: far loro conoscere il messaggio di Dio, farli partecipi del mistero della sua vita.
L’addio di Gesù (vv. 27-29)
Ma si avvicina il momento in cui Gesù sta per partire verso l’orto degli Ulivi al di là del torrente Cedron: è il momento degli addii, che egli formula con il saluto tradizionale del mondo orientale, l’augurio della pace (v. 27). Ma egli precisa che non si tratta del saluto che dà il mondo: augurio banale e sempre inefficace. La pace di Gesù è il più prezioso dei doni che Egli fa già ora, prima di morire, tanto è certo della sua vittoria pasquale e dei suoi frutti. Ma i discepoli stentano a superare la prospettiva spaventosa della Passione che si avvicina. La partenza che Gesù annuncia loro li riempie di sgomento: che cosa diventeranno senza di lui? Gesù li rassicura ripetendo l’annuncio del suo prossimo ritorno: egli ritorna al Padre che l’ha mandato; presso di lui ritroverà la “gloria”, la potenza e la signoria che gli apostoli sperimenteranno nelle apparizioni pasquali. Queste prospettive trionfali dovrebbero assicurare la gioia dei discepoli, anche alla vigilia della croce. Invece, lo scandalo della croce li turberà profondamente: lo attestano la loro fuga precipitosa. Gesù lo sa, e trova nella prova stessa un mezzo per rinfrancare la fede dei suoi (v. 29). Annuncia la sua passione per mostrare che non la subisce, ma che ne è il padrone e il vincitore.
Esaltato nella gloria di Dio, misteriosamente unito al Padre e allo Spirito, il Risorto ha abbandonato la condizione terrena che lo rendeva accessibile alla conoscenza dei sensi. Ma, sfuggendo agli stretti limiti dello spazio e del tempo, egli non è sottratto ai nostri occhi se non per esserci eternamente presente alla maniera di Dio: Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo!
Bibliografia consultata: George, 1971.