Con la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc. 18, 9-14) l’evangelista tocca la delicata questione dello stile che deve caratterizzare la preghiera e il giusto modo di relazionarsi con Dio. Essa mira a criticare l’ipocrisia di coloro che, in nome della propria presunta bontà, giudicano gli altri e sono convinti di essere “giusti”, cioè “a posto” davanti a Dio. Anche se l’esempio negativo della parabola viene da un fariseo, non dobbiamo pensare che sia rivolta solo ai “farisei” in quanto gruppo religioso.
Se storicamente Gesù rivolse queste parole in un contesto polemico contro il fariseismo, l’eccessiva sicurezza di sé e l’ostentazione delle proprie opere buone possono essere un male che tocca da vicino i discepoli di ogni tempo. Gesù mette allora in guardia da un grosso pericolo in cui tutti gli uomini “religiosi” possono incappare, e cioè della dimenticanza che la salvezza, prima ancora che essere un traguardo raggiungibile sulla base dei propri meriti, è un dono gratuito di Dio.
“Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé…” (v. 17). Anche se di per sé era normale che un ebreo pregasse in piedi cantillando le parole della preghiera, è innegabile che Gesù veda anche solo nella postura assunta dall’uomo un’espressione di arroganza e di superbia, come poi conferma il monologo che segue immediatamente. Il fariseo innalza a Dio una preghiera di ringraziamento il cui centro, però, non è il Signore, ma il proprio “Io”. Anche se le opere menzionate sono degne di lode, emerge fin dall’inizio una nota stonata che, come dicevamo, trasforma la preghiera in un soliloquio.
Dall’alto della sua presunta bontà, il fariseo giudica gli altri uomini, quasi che tutti fossero ladri, ingiusti, adulteri e solo lui fosse santo dinanzi a Dio. Il fariseo proietta sugli altri il severo giudizio che Gesù riserva proprio ai farisei: la loro avarizia. “Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori! Ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole” (16, 15).
Nella seconda parte della preghiera il fariseo elenca le sue opere. Egli non si limita a osservare i comandamenti della Legge, ma fa molto di più. Al digiuno obbligatorio del giorno dell’espiazione il fariseo aggiunge il digiuno due volte alla settimana. Paga la decima su tutto, mostrando così di essere disposto anche a compiere notevoli sacrifici materiali. Anche in questa seconda parte della preghiera, però, emerge una nota stonata: sembra proprio che il fariseo stia parlando a se stesso, non a Dio, quasi avesse bisogno di convincersi della bontà delle proprie azioni.
Anch’egli, come il fariseo, sale al tempio a pregare, ma con una disposizione dell’animo decisamente diversa. A differenza del fariseo, il pubblicano si ferma “a distanza” (v. 13) e non alza lo sguardo verso Dio. Anzi, battendosi il petto riconosce la propria miseria, invocando la misericordia di Dio, ben consapevole di non aver meriti da rivendicare: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (v. 13). La preghiera del pubblicano riecheggia il salmo 50 (51) penitenziale che inneggia alla bontà e alla misericordia di un Dio che non disprezza un cuore affranto e umiliato. Poche parole, dunque, pochi gesti e, soprattutto, nessuna ostentazione: questa è la preghiera del pubblicano, una preghiera che, come Gesù stesso riconoscerà, è gradita a Dio.
La formula “Io vi dico” (v. 14) introduce il giudizio di Gesù, un giudizio che ribalta completamente le sorti e che di sicuro doveva risultare scandaloso proprio agli orecchi dei farisei, evidentemente molto sicuri di sé: il pubblicano “a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato” (v. 14).
Ciò che Gesù biasima e condanna non sono certo le buone opere, ma l’eccessiva sicurezza di sé, il pensare di poter fare a meno di Dio. A eccezione del ringraziamento iniziale, il prosieguo della sua preghiera non contiene alcuna lode né tanto meno alcuna domanda. Tutto ripiegato su di sé e sulla propria fierezza, il fariseo non si rende nemmeno conto di aver completamente eliminato Dio dall’orizzonte della propria esistenza. Quella del fariseo, perciò, non è una preghiera: non chiede nulla e, di conseguenza, Dio non gli dà nulla.
Il pubblicano, invece, è consapevole di essere un povero peccatore e, soprattutto, sa di non poter pretendere nulla da Dio; semmai, può solo confidare nella sua misericordia. Il pubblicano perciò non ostenta alcun merito, perché in cuor suo è perfettamente consapevole della propria condizione di peccatore, della quale egli certamente non si vanta, ma dinanzi alla quale non dispera, confidando nell’infinita misericordia di Dio. Questa è l’umiltà che Gesù apprezza.
Di certo il Maestro non loda la vita del pubblicano, così come non disprezza le opere del fariseo. Però tiene a ribadire che l’unico modo corretto di porsi dinanzi a Dio nella preghiera è di sentirsi bisognosi del suo amore e della sua misericordia, non solo a parole, ma anche con i fatti, cioè con quelle opere buone che, compiute con umiltà, non vengono certo ignorate da Dio. Così il pubblicano torna a casa “giustificato”, guarito dalla giustizia di Dio, che è sinonimo di perdono e di salvezza. Il fariseo, invece, se ne va, privo di quella giustizia che era convinto di possedere in virtù dei suoi meriti.
Bibliografia consultata: Gennari, 2019.
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