Nel cammino quaresimale la seconda domenica ci proclama il racconto della Trasfigurazione (Mc. 9, 2-10), con il quale si vuole mostrare come il credente sia diretto non solo sulla strada verso il Golgota, ma anche sulla via della Risurrezione. Gesù si trasfigura su un alto monte subito dopo il primo annuncio di passione, morte e risurrezione. Questa comunicazione sbilancia gli equilibri del gruppo dei discepoli. Non a caso Pietro, che precedentemente aveva riconosciuto Gesù come il Cristo, reagisce rimproverandolo quando invoca per sé un destino che non è consono a un Messia. La posizione di Pietro non collima certamente con quella di Gesù, che a sua volta lo rimprovera in maniera molto forte, addirittura chiamandolo “satana”. La ragione di questo biasimo così aspro è che la posizione di Pietro riflette una visione religiosa semplicemente umana, che non corrisponde per niente alla logica di Dio.
Per riequilibrare gli scompensi dei discepoli all’annuncio della sua morte, Gesù ne porta tre sul monte alto. La tradizione dei Padri ha identificato questo alto monte con il Tabor e dove i figli di San Francesco hanno edificato una bella chiesa della Trasfigurazione. Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, i discepoli che hanno un ruolo particolare nella missione pubblica di Gesù, perché lo accompagnano in momenti decisivi della sua attività.
Come tradurre l’evento in sé stesso della trasfigurazione di Gesù? In altre parole: che cosa è accaduto? E’ molto difficile dirlo. Il verbo “trasfigurare” (metamorfeo) etimologicamente dice un cambiamento di forma. Tuttavia la descrizione risulta alla prova dei fatti estremamente lacunosa. Questa difficoltà di definire avvenimenti “divini”, “trascendenti” (metafisici) è costante nella letteratura biblica, ma è comprensibile alla luce di quella che è la riflessione sulla realtà “Dio”. L’esperienza vissuta dai discepoli è qualcosa di indicibile, come tutte quelle particolarmente “metafisiche” all’interno della narrazione biblica. Le parole usate per esprimere questa esperienza vissuta toccano soltanto in maniera tangenziale ciò che in realtà è accaduto.
Espressione esterna di questo evento indicibile sono le vesti di Gesù che diventano bianchissime. Nell’antichità i vestiti sono il segno dell’identità personale; da esse si distingue subito il ricco dal povero, il possidente dal nulla-tenente. Per evidenziare la condizione “altra” di Gesù addirittura si aggiunge la nota sullo splendore delle sue vesti, che non dipende da nessuna operazione di pulitura. Il bianco, nella simbologia biblica, è segno della risurrezione.
Durante la trasfigurazione Gesù intrattiene un dialogo con due figure eccellenti dell’AT.: Mosè ed Elia. Mosè è colui che ha liberato il popolo di Israele schiavo in Egitto e anche colui che ha un rapporto personale con Dio; Elia è il primo profeta dell’AT. che si trova da solo a dover lottare in una società in cui l’idolatria era dilagante, riconducendo il popolo alla fede dell’unico Dio e Signore. Pertanto Gesù è in dialogo con il rappresentante della Legge e con quello del mondo profetico: le due grandi rivelazioni che condensano tutta la narrazione dell’Antico Testamento. Soltanto alla fine del racconto si potrà comprendere il vero senso di questo colloquio.
La scena trascendente viene interrotta da Pietro che rivolge a Gesù una richiesta: costatando la situazione idilliaca dei personaggi, propone di costruire tre capanne. Le parole del discepolo manifestano la sua volontà di restare in quel luogo e non scendere più dal monte. Andarsene, infatti, voleva dire per Gesù intraprendere una storia difficile e complicata fatta di conflitto, di rifiuto, di sofferenza e di morte. Non è sempre facile accettare la realtà da affrontare con le sue asperità e complicazioni.
Il quadro finale è accentuato dalla sceneggiatura della nube come simbolo della presenza divina: dalla nube, infatti, una voce trascendente dichiara Gesù il Figlio amato che va ascoltato. La fede di Israele non si costituisce con azioni, ma con l’ascolto (cfr. “Ascolta, Israele”). La fede nasce dall’ascolto, dall’ascolto di Gesù, il Figlio amato. L’ascolto della sua Parola risulta ineludibile nella pedagogia della fede. Senza di esso non c’è crescita nella persona, non c’è maturità umana. Chi deve essere ascoltato non è uno dei tanti inviati di Dio o profeti, ma il Messia, che nell’esercizio della sua missione vive una vita che lo condurrà a un destino ignominioso, terribile, ma in quanto Figlio verrà risuscitato da Dio. La sua Parola quindi non è una fra le tante, ma è quella definitiva che manifesta l’autentica volontà di Dio.
La trasfigurazione è un’esperienza di luce: la persona di Gesù appare nella luce di Dio, in tutta la sua bellezza sfolgorante. Ricorderanno i discepoli questa luce quando sarà l’ora delle tenebre, quando il buio coprirà la terra e sembrerà che a pronunciare la parola definitiva siano la morte e la cattiveria? La trasfigurazione è un’esperienza di compimento delle promesse fatte a Mosè e a Elia: Gesù è l’Atteso, colui che viene con la forza dell’amore di Dio. Sapranno gli apostoli riconoscerlo quando il suo volto apparirà sfigurato dallo spasimo dell’agonia?
La trasfigurazione non è la risurrezione: è solo un anticipo, un lampo che annuncia il fulgore, l’irrompere della luce di Dio nella storia degli uomini e delle donne. E questo accadrà quando il Cristo risorgerà dai morti, segno di sicura speranza per tutti. Ecco perché non ci si può fermare sul monte, ma bisogna riprendere il cammino verso Gerusalemme.
Signore, tu sei il Servo, l’amato: disposto a rimanere fedele alla volontà del Padre anche quando si tratterà di conoscere la prova terribile della passione e della morte, anche quando dovrai sperimentare l’angoscia profonda del Getsemani (l’orto degli ulivi), la solitudine estrema della croce. Gesù, ravviva la mia fede in te: donami di ascoltarti con cuore attento e docile e di abbandonarmi a te senza remore.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Grasso, 2021; Laurita, 2021.
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