Gli studi più recenti definiscono il brano del ricco e del povero Lazzaro (Lc. 16, 19-31) come un racconto esemplare con finalità catechetica, con una particolare attenzione ai temi della ricchezza e al destino degli uomini dopo la morte.
Anzitutto viene introdotto un uomo ricco, di cui però non è detto il nome. Del ricco si dice che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo (v. 19), tessuto particolarmente pregiato e costoso di importazione straniera. Oltre a ciò, il narratore (Gesù) aggiunge che “ogni giorno banchettava lautamente” (v. 19). Anche se in tale descrizione non vengono pronunciati giudizi sul comportamento del ricco, tuttavia l’impressione che il lettore ne ricava è alquanto negativa.
La descrizione del povero è più particolareggiata e occupa più spazio rispetto a quella del ricco. Del povero si dice anzitutto il nome, Lazzaro, che in ebraico significa “Dio viene in aiuto”, a indicare che l’unica speranza e l’unica consolazione di cui egli può godere vengono solo da Dio, non certo dagli uomini, che neanche si rendono conto della sua misera esistenza. Di Lazzaro si dice che “stava” (scaraventato) alla porta del ricco, coperto di piaghe e affamato (vv. 20-21). Insomma, il povero è descritto come un relitto umano, sballottato dai flutti di una vita avversa e buttato lì, davanti alla porta del ricco, mentre questi è egoisticamente dedito al lusso e al godimento sfrenato. Gli unici che sembrano rendersi conto di Lazzaro sono i cani, animali impuri agli occhi degli ebrei, che vengono a leccare le sue piaghe.
Senza che le sorti dei due protagonisti subiscano alcun mutamento, a un certo punto entrambi muoiono. Mentre il ricco, sepolto in terra, si ritrova tra i supplizi degli inferi, Lazzaro viene portato dagli angeli “nel seno di Abramo” (v. 22). Il riferimento all’accompagnamento degli angeli e al seno accogliente del patriarca contrasta in modo evidente con la notizia fredda e lapidaria riferita alla sepoltura del ricco. La storia potrebbe finire qui, con il ribaltamento delle sorti, conseguenza diretta e implacabile della giustizia di Dio. Invece il racconto non è ancora terminato, svelando così un prosieguo inatteso.
A quanto pare, nemmeno le pene dell’inferno scalfiscono la superbia e l’arroganza del ricco, il quale con un tono di finta umiltà, chiede ad Abramo di inviare Lazzaro perché, bagnandogli la lingua, gli dia sollievo. Insomma, quello stesso Lazzaro che egli un tempo aveva ignorato, ora dovrebbe servirlo come uno schiavo. Tra l’altro, il ricco esige le medesime azioni che, senza troppa fatica, egli avrebbe potuto compiere per alleviare le sofferenze del povero Lazzaro quando questi giaceva fuori dalla sua casa.
La risposta di Abramo, priva di rancore, è però ferma e severa. Rivolgendosi al ricco come a un figlio, lo invita a prendere coscienza del fatto che la morte ha posto un sigillo indelebile all’orientamento che ciascuno ha voluto dare alla propria esistenza terrena: il ricco in terra ha avuto i suoi beni, Lazzaro invece i suoi mali; ora Lazzaro è consolato e il ricco è in mezzo ai tormenti. Persino il ricorso alla paternità di Abramo non può più nulla.
Non va dimenticato che l’obiettivo ultimo dell’insegnamento trasmesso dal racconto è suscitare nel lettore una seria riflessione sul tenore della propria esistenza, per evitare che la sua sorte ultima sia assimilabile a quella del ricco, felice su questa terra, ma dannato per l’eternità. La consolazione di cui gode Lazzaro consiste dunque nel pieno ristabilimento dell’equità e della dignità che gli era stata negata durante la vita terrena, non solo per le circostanze avverse, ma anche per la noncuranza di chi, a eccezione dei cani, aveva totalmente ignorato non solo la sua sofferenza, ma persino la sua esistenza.
Il ricco non si scoraggia dinanzi al primo diniego del patriarca e formula una nuova richiesta, che però conferma tristemente l’egoismo che pervade la sua persona. Il ricco chiede ad Abramo di mandare Lazzaro ad ammonire i suoi fratelli perché non facciano la sua stessa fine. Lazzaro ancora una volta è trattato dal ricco come uno schiavo a sua disposizione. La risposta di Abramo ancora una volta è decisa e implacabile: “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro” (v. 29). Il ricco replica che se Lazzaro redivivo li ammonisse, sicuramente si convertirebbero. Ma Abramo risponde in modo lapidario: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (v. 31).
Questo racconto parla della conversione come di un atteggiamento indispensabile per accedere alla salvezza eterna. In fondo, le parole di Gesù denunciano il più grave dei mali che da sempre affliggono l’umanità: l’egoismo, l’essere cioè ripiegati su se stessi, chiusi all’amore di Dio e dei fratelli. Convertirsi significa spostare il proprio baricentro, vivere nel timore-amore di Dio e prendersi cura dei fratelli, soprattutto dei più bisognosi, con la consapevolezza che in essi incontriamo misteriosamente la presenza di Dio. Della ricchezza non si deve diventare schiavi, ma ci si deve servire per vivere una vita dignitosa e, al contempo, dedita alla cura dei più bisognosi.
Bibliografia consultata: Gennari, 2019.
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