Questo brano del vangelo di Matteo (11, 25-30) rappresenta la grande confessione di lode di Gesù verso il Padre e mette in evidenza che non è sufficiente l’intelligenza per accogliere il regno di Dio e i segni dei tempi con cui esso è accompagnato. Le parole del Signore, con cui si apre questa pagina di Matteo, ricordano come ai piccoli è data in dono la sapienza che viene da Dio per accogliere il suo Regno. Il brano descrive la rivelazione del Padre fatta ai piccoli e la reciprocità tra il Padre e il Figlio, e, infine, si parla della sequela a cui sono invitati i discepoli del Signore.
Gesù proclama questa lode a Dio Padre proprio quando il suo annuncio e le sue opere vengono rifiutate ed egli si trova in un momento particolarmente difficile. Sembra quasi che le sue parole siano una risposta all’incredulità dei Galilei riguardo al ministero di Gesù. Questa lode si eleva al Padre perché il messaggio del Vangelo è accolto dai piccoli, da coloro che si rendono disponibili ad accogliere la sua persona non per pura sapienza umana, ma per dono divino.
La dicotomia sapiente-piccolo.
“Ti rendo lode, Padre, …perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (v. 25). Chi sono gli intelligenti che rifiutano il Signore e chi sono i piccoli che lo accolgono? Per l’evangelista Matteo, essi non indicano dei soggetti determinati, quanto piuttosto un atteggiamento, un modo di essere. Esso rivela il pericolo in cui possiamo incorrere tutti nel crederci intelligenti nella fede e, d’altro canto, tutti possiamo, invece, renderci piccoli e accogliere il dono della rivelazione del Regno. Questa dicotomia sapiente-piccolo attraversa tutto il vangelo di Matteo: vediamo la contrapposizione tra Erode e i Magi, tra Giovanni e il gruppo dei farisei e sadducei, tra i falsi profeti e i discepoli, tra i farisei e i pubblicani.
In questo senso i piccoli sono coloro ai quali è affidato l’annuncio del Vangelo, che sanno riconoscere in Gesù il Figlio di Dio inviato dal Padre per la salvezza del mondo: “tutto è stato dato a me dal Padre mio”. C’è reciprocità tra il Signore e il Padre: quindi, la sapienza con la quale è permesso ai piccoli di accogliere il dono del Regno è la stessa persona di Cristo, sapienza di Dio. Soltanto attraverso il riconoscimento di Gesù come l’inviato dal Padre è possibile “conoscere” il volto misericordioso di Dio. Per questo attraverso lui, vero Dio e vero uomo, i piccoli del Signore possono incontrare e conoscere in modo autentico il volto misericordioso del Padre.
Mite e umile.
“Imparate da me , che sono mite e umile di cuore” (v. 29). Con l’attributo “mite” Gesù si presenta come il servo obbediente citato dai testi profetici. Gesù si definisce mite e umile perché questi due termini sono cari alla tradizione ebraica nelle grandi figure della storia della salvezza. Questa ripresa della tradizione ricollega la figura di Gesù non ad un re trionfatore o ad un sommo sacerdote potente, ma a quella del servo che obbedisce al Padre. Allo stesso modo coloro che sono disposti ad accogliere questo messaggio di umiltà e di salvezza sono appunto i piccoli, i poveri, gli umili, le persone semplici.
“Il mio giogo, infatti, è dolce e il mio peso leggero” (v. 30). In questi ultimi versetti è ripresa l’immagine del giogo che nel giudaismo indicava l’osservanza della Legge con i suoi precetti. Gesù lo ripropone in un contesto diverso, il cui frutto è quello di annullare il peso legalistico e normativo del dovere e sostituirlo con quello dell’amore di Dio: la relazione con il Signore non è più regolata dal timore del giudizio, ma dalla certezza dell’amore del Padre che non diminuisce l’esigenza della corresponsabilità e dell’impegno personale, anzi, rende più impegnativa questa relazione.
Questa relazione nuova presentata da Gesù sussiste nella misura in cui non ci si affida alla propria sapienza e intelligenza, ma alla sapienza che viene da Dio: è la sua stessa persona che ci raggiunge attraverso lo Spirito. La Sapienza divina che ci richiede di vivere nella condizione di piccoli, cioè di coloro che riconoscono il loro essere creature bisognose dell’amore del Creatore. Soltanto in questa disposizione d’animo si può avere la capacità di accogliere il messaggio, le opere e la persona di Gesù. E allo stesso tempo si diventa capaci di rintracciare i segni dei tempi, ossia le tracce sicure dell’amore e della presenza di Dio nel cammino della Chiesa e dell’intera umanità.
Il re che rinuncia agli sfarzi della corte (prima lettura) e il Figlio di Dio che vive nell’umiltà della natura umana (vangelo) rappresentano la mèta di un cammino che ciascun cristiano è chiamato a compiere. Solo chi è come loro può conoscere il volto del Padre; chi, invece, ragiona come il mondo, che, piuttosto, tende al successo e al possesso, non si situa nella stessa lunghezza d’onda di Gesù né di quella del Padre. Conoscono il Padre non gli intelligenti nella fede, i presunti sapienti o sapienti secondo la logica del mondo, ma al contrario coloro che il mondo reputa piccoli e incolti. Spesso la teologia dei cristiani semplici sorprende perché ha tanto da insegnare anche ai teologi di professione. Il “sentire la fede” dei discepoli di Gesù è semplice e immediatamente comprensibile da un cuore che ama Dio. La semplicità e l’umiltà si traducono in uno stile di sobrietà nell’uso dei beni, di sincerità nei rapporti con gli altri, di trasparenza nella vita parrocchiale o nella comunità in cui si è inseriti. Per la Chiesa semplicità e umiltà significano anche perseguire la sobrietà delle sue strutture e dei suoi beni materiali, significano uno stile che ricerchi sì la bellezza, ma senza offendere il povero.
Bibliografia consultata: Corini, 2017; Trudu, 2017.
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