Gesù approfondisce il segno dei pani e dei pesci (Gv. 6, 41-51) perché ne vuole esplicitare la portata simbolico-salvifica, dichiarando che egli dona sé stesso agli uomini. Davanti al mormorare dei presenti afferma la sua provenienza dal cielo e offre sé stesso come il pane per la vita eterna.
Di fronte all’affermazione di Gesù: “Io sono il pane disceso dal cielo” (v. 41) i Giudei mormorano contro di lui perché dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre?” (v. 42). La “discesa dal cielo” è l’incarnazione. L’evangelista Giovanni assimila gli uditori di Gesù alla generazione dei loro antenati nel deserto, che mormorarono contro Mosè.
Mormorare, nella Scrittura, significa rifiutare di credere e di aderire al disegno salvifico di Dio stesso. L’ostacolo che impedisce la fede è il fatto che Gesù ha dei genitori, ciò significa che per i suoi contemporanei Gesù è un uomo come ogni altro. Certo essi conoscono il figlio di Giuseppe, il figlio di Maria, ma non ancora il Figlio di Dio, rifiutandosi di pensare a un mistero che ci supera radicalmente.
Tale incomprensione della rivelazione proviene dallo scandalo dell’umile origine terrena di Gesù. Egli non corregge l’incomprensione dei suoi uditori, ma ne dà una spiegazione teologica. La fede corrisponde a una attrazione interiore da parte del Padre, interpretata come “istruzione e insegnamento” (v. 45); in più, è necessaria anche l’attrazione del Figlio innalzato da terra. Gesù dichiara di essere disceso dal cielo e pertanto appartiene alla sfera di Dio; riafferma così la propria origine divina, perché “presso Dio e ha veduto il Padre” (v. 46), a differenza di tutti gli altri uomini.
Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui viene a me: è l’iniziativa salvifica di Dio, che si ascolta quando si ascolta la Parola e così si è istruiti da lui e si viene da Gesù per restare con lui. Gesù sottolinea così la necessità dell’intervento del Padre nella genesi della fede come compimento della salvezza: riconoscere Gesù significa entrare nel mistero divino, e ciò non può avvenire se il Signore e Padre di Gesù non ne apre l’accesso.
Gesù a questo punto del discorso sul pane di vita introduce il tema del “mangiare”, che orienta verso la comunione dei credenti con Dio. Il pane di Dio o pane della vita bisogna mangiarlo, condividerlo: “Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (vv. 48-51).
Questa sezione finale del discorso è intessuta di termini sacramentali, ma è sempre una rivelazione misteriosa di Gesù, formulata con un linguaggio metaforico, che rivela il suo sacrificio per la vita dell’umanità, il mistero dell’unione tra lui stesso e il credente, nella comunione della sua morte annunciata, che è sempre la condizione per una vita piena, eterna. Pur avendo mangiato la manna, i padri sono morti, perché tale cibo si è dimostrato inefficace per comunicare la vita piena. Ora il pane del cielo, che è Gesù, si dona a tutti, abolisce per sempre la morte per colui che ne mangia, perché esso contiene la vita. Si tratta di una vita speciale, diversa da quella naturale, in quanto la supera non solo per qualità ma anche per durata; è eterna perché viene da Dio e ci mantiene in relazione con lui, ma anche perché non ha confini umani di tempo.
“Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v. 51). Gesù con tale affermazione sul mangiare e l’accogliere in sé presenta uno sviluppo di pensiero che ci conduce a una nuova rivelazione. Mentre in precedenza Gesù ha affermato che il pane disceso dal cielo è quello che Dio dona, qui egli diventa il donatore e la metafora del pane è ora decodificata ulteriormente. In questo nuovo annuncio Gesù offre una interpretazione chiara a partire dai tre termini centrali: “carne”, “dare” e “per”.
Con il termine “carne”, Gesù intende il suo corpo nella realtà della sua nascita terrena e condizione mortale. Al termine “pane” qui viene preferito “carne”. Ma come mai “carne” per sei volte è ripetuto e in unione a “sangue” e viene preferito persino a “corpo”, tradizionale anche nelle parole di Gesù all’Ultima Cena? Esso indica come sede vitale un atto di culto, la celebrazione dell’eucaristia, con parole assai realistiche che interpretano il “pane vivo”, che viene mangiato nella fede, “come le sostanze carne e sangue di Gesù”, mangiate nell’eucaristia. L’azione del dare è del Figlio che si dona “per”, a favore della vita del mondo. Così ogni distanza tra Cristo e il credente è abolita.
Senza eucaristia la fede langue, perché essa è, di sua natura, una realtà non individualistica, ma di relazione: una relazione che trasfigura una storia personale e nello stesso tempo la inserisce nel tessuto di una comunità. La relazione visibile, con i fratelli e sorelle che ci vivono accanto, e quella invisibile, con il Signore che abita in noi, costituiscono un’unica realtà di grazia e di impegno, di abbandono fiducioso e di responsabilità.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Mazzeo, 2021; Laurita, 2021.
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