Religione, “Io sono il Pane vivo”
di Il capocordata
Nella conversazione domanda-risposta tra Gesù e i Giudei in merito al “segno” della moltiplicazione dei pani, Gesù ha appena affermato di essere il pane disceso dal cielo (v. 35). L’affermazione “Io sono” e “disceso dal cielo” mette in allarme i Giudei, perché solo il Signore Dio può dire di se stesso: “Io sono”, come si era espresso sul Sinai di fronte a Mosè. “Allora i Giudei si misero a mormorare contro di lui” (v. 41): il figlio di Giuseppe come può dire di essere disceso dal cielo? E Gesù dopo aver chiarito la propria origine divina e dopo aver mostrato che il Padre conferma questo mistero attirando a lui quelli che credono, passa a spiegare il dono della vita eterna, che egli, come pane del cielo, porta al mondo.
Tale vita eterna è frutto della fede, ma la fede da sola non basta. L’esito del credere dipende dall’oggetto creduto, dalla sua forza e capacità di operare. Gesù pone davanti agli occhi dei Giudei il caso dei loro padri: pur avendo mangiato un pane disceso dal cielo, sono morti: “I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti” (v. 49). Perciò venire dal cielo non basta a garantire la vita, occorre che quel pane sia “vivo”, porti dal cielo attraverso se stesso la vita eterna e la metta a disposizione di coloro che il Padre attira a lui: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (v. 44). Solo allora chi mangia di quel pane riceve la vita eterna, perché unendosi alla fonte ne viene infinitamente dissetato.
A questo punto Gesù cambia di ruolo. Sempre rimanendo nel quadro del “segno” che ha compiuto, dopo aver spiegato di essere lui il pane vivo venuto dal cielo, ora spiega quale sia il pane che egli distribuisce a tutti: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v. 51). Così si presenta allo stesso tempo come il pane che viene dal cielo, donato dal Padre, e come il pane che lui dà, segno del dono di se stesso, della sua umanità, “carne”, donata per la vita del mondo.
Quella che Gesù chiama “la mia carne” è al tempo stesso l’oggetto donato e l’atto (il soggetto) del donare. E’ la sua umanità che dona se stessa e mette se stessa a disposizione di chi la vuole ricevere. Quanto Gesù dice forza tutte le immagini fino al loro punto di rottura, o meglio, di fusione; fino al punto in cui l’esperienza-immagine del mangiare si rovescia nell’essere divorati dalla potenza della carne-umanità del Cristo donata, e divorare in essa insaziabilmente la vita eterna. Fino al punto in cui la bocca, gli occhi, e tutti i sensi si spalancano per venire contemporaneamente riempiti di Cristo e svuotati di sé, trasformati in quella sua unica vita infinita, “concorporei e consanguinei”. La lettura del vangelo di oggi si chiude con questo annuncio che Cristo fa, lasciando gli ascoltatori preda della domanda sul senso possibile di tale inaudito parlare.
E’ questa una pagina evangelica di formidabile suggestione, che contiene parole di rivelazione concrete e senza fronzoli, quasi fatte degli ingredienti primari e fragranti del pane che evocano: il pane della vita. Un pane che è miracolo dell’abbondanza materiale, quando Gesù nutre le folle che lo seguono da giorni. Un pane che è stravolgimento progressivo dell’esperienza di Dio, da autorità distante a mensa dell’umanità e segno di salvezza, a mano a mano che la metafora si trasforma in storia, sconvolgente, per il riscatto degli uomini.
La gente con entusiasmo segue Gesù, affamata e assetata di giustizia. Intuisce la novità liberatoria di quei pani e quei pesci distribuiti senza calcoli. Mormorano, invece, contro Gesù i giudei, tragicamente incapaci di porre lo sguardo oltre la convenzionalità sociale dei loro principi. Con loro taglia corto Gesù e utilizza la saccenteria statica dei giudei per spiccare il volo di un nuovo annuncio e raccontare il suo ruolo centrale di raccordo nella storia fra Dio e gli uomini, di garante fra la grandezza del dono e la libertà di accoglierlo, di testimone oculare dell’amore liberatorio di Dio.
Dio ci “attira” a lui. Da qui parte la concretissima strada infinita del nostro essere suoi figli. La fede non può essere che abbandono gioioso a chi ci ha scelti e amati per primo. Quando arriviamo a scoprire che ciò che è in gioco nella nostra vita è più grande di quanto vediamo, il nostro orizzonte si allarga e diventa fede in Dio, nella sua azione e nel suo dono. A mano a mano che il dono fluisce, si creano spazi di accoglienza più grandi, e l’energia creatrice può essere espressa in forme sempre nuove.
Non occorre molto per accorgerci come spesso le nostre presunte esperienze di fede non sono altro che surrogati fittizi, sentimentalismi passeggeri, emozioni di fiato corto. E’ vero, ci si può illudere perché ci si trova di fronte al pane. Ma quale pane? “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v. 51). Necessita un radicamento profondo nella vita del Cristo. Pane e fede sono tra loro intimamente correlati. Al di là di ogni relativismo religioso, oggi così diffuso, al di là di ogni insignificanza rituale troppo avallata in quanto i cristiani si limitano a essere spesso muti spettatori di fronte a pochi commensali senza lasciarsi coinvolgere in questa indispensabile comunione di vita.
Bibliografia consultata: Tosolini, 2018; Boselli, 2018.