“Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta…è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore” (Gv. 10, 1-10). Nella Scrittura Dio è chiamato “pastore”, e la sua azione nei confronti di Israele viene spesso descritta con immagini desunte dalla vita pastorale. Riferendosi all’esperienza dell’esodo, i Salmi così descrivono l’azione di Dio, presentando il cammino nel deserto come un vero movimento di transumanza del gregge di Dio: ”Guidasti come un gregge il tuo popolo per mano di Mosè e di Aronne”; “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”; “E’ lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce”.
E’ proprio sullo sfondo dell’Esodo che va letto il tema del pastore nel vangelo di Giovanni. In questo testo, infatti, troviamo i tre temi fondamentali del cammino dell’uscita dalla schiavitù alla terra promessa del popolo eletto, che si possono riassumere nei tre verbi: “uscire, camminare, entrare”. Anche nella tradizione profetica è presente il tema di Dio “pastore”: la parola di Gesù riprende la parola profetica di Ezechiele. Le invettive contro i pastori infedeli tendono ad annunciare un misterioso pastore che Dio susciterà come un nuovo Davide.
“Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro (Gv. 10, 6). La parabola della “porta” e del “pastore” indica un discorso segreto, che richiede di essere interpretato mediante una parola che lo chiarisce. La parabola indica una parola misteriosa, enigmatica, seguita da un’altra parola che la mette in piena luce. E’ lo schema della rivelazione in due tempi che troviamo frequentemente nel vangelo di Giovanni.
“Egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori” (v. 3). Il pastore entra nel “recinto” dell’ovile e “conduce fuori” le sue pecore. Al pastore si contrappone una figura chiamata “ladro”, “brigante”, “estraneo”. Dopo aver fatto uscire le sue pecore, Gesù “cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono” (v. 4). In tutto il quarto vangelo il “camminare” di Gesù ha una meta precisa: egli va verso il Padre. Le pecore lo seguono: la docilità del discepolo nasce dal fatto che egli si è familiarizzato con la parola di Gesù, ha imparato a riconoscerla, a distinguerla dalla voce degli “estranei”, perché, educandosi all’ascolto, la voce di Gesù gli è diventata familiare. Allora si lascia “condurre fuori” per accogliere la vita che solo Gesù può offrire in abbondanza: “io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (v. 10).
“Io sono la porta delle pecore” (v. 7). Il discorso segreto della parabola o similitudine viene ora chiaramente interpretato: io sono la porta attraverso cui passano le pecore. Giovanni riprende questa immagine dagli altri evangelisti (Sinottici), che con essa indicano la porta che dà accesso al Regno, ma il suo discorso si concentra su Gesù.
Si passa attraverso Gesù per dimorare in lui. La porta non è soltanto un luogo di passaggio, ma appartiene al “recinto” stesso. Nel linguaggio biblico la porta della città o del Tempio indica spesso l’insieme della città o il Tempio stesso. Quindi Gesù è il nuovo recinto, il nuovo Tempio. Egli è la via, ma nello stesso tempo è la vita. Gesù esclude che chiunque altro, all’infuori di lui, possa condurre alla vita sovrabbondante. Con la formula “entrerà e uscirà” (v. 9) si indica nel linguaggio semitico tutta la vita, una vita pienamente libera di muoversi, di espandersi in una comunione senza intralci con Gesù, colui che solo può smascherare le schiavitù che ci opprimono e donarci la libertà dei figli.
L’immagine del pastore si presta molto bene ad esprimere alcuni aspetti importanti della nostra relazione con Gesù. Che cosa fa infatti il pastore? Chiama le sue pecore “una per una”, le conduce fuori, cammina davanti a loro. E cosa fanno le pecore? Ascoltano la sua voce e lo seguono. Perché? Perché conoscono la sua voce. Verbi semplici: chiamare/ascoltare, condurre/camminare/seguire, conoscere. Verbi quotidiani nella vita di un gregge, verbi quotidiani per ogni credente. Gesù ci invita a coniugare questi verbi con la nostra esistenza di ogni giorno.
Nel segno dell’ascolto, del dialogo con lui. Così viene da domandarci: quando “passiamo” per la Scrittura, quando ascoltiamo la parola di Dio, arriviamo poi a lui? Oppure siamo presi dal testo o dalla parola al punto da dimenticarci di Colui che parla? Nel segno della sequela, del lasciarsi guidare e condurre. Così viene da chiedersi: il nostro rapporto con lui produce un cambiamento oppure restiamo lì dove siamo? Ci lasciamo smuovere dalle nostre posizioni, ci lasciamo mettere in movimento?
La figura del pastore incarna la fatica e la durezza del cammino, la forza richiesta per custodire, la tenacia, la responsabilità, la tensione e a volte le paure, le delusioni, le perdite. Ciò che dà valore a questi atteggiamenti è lo spirito con cui vengono vissuti: per passione, non per mestiere. Perché c’è una relazione e una conoscenza. Purtroppo oggi noi pastori, cioè, vescovi e parroci, siamo diventati i “managers” delle nostre comunità che il Signore ci ha affidato; le pecorelle, da guidare e nutrire, sono il trampolino di lancio per la nostra carriera ecclesiastica; è finita la “passione” di una volta per cedere spazio al “mestiere” come ogni altro, da sfruttare per fini personali. La preghiera della chiesa universale per “i pastori”, in questa domenica, compia il miracolo che tutti ci attendiamo: Gesù doni alla sua comunità sacerdoti e vescovi secondo il suo cuore, “mite e umile”, che amino il loro gregge fino a dare la vita “in abbondanza”, come il Buon pastore.
Bibliografia consultata: Nason, 2017; Laurita, 2017.
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